L'esposizione del mito nel Fedro si apre con una fondamentale premessa metodologica che rivela la consapevolezza platonica dei limiti del linguaggio filosofico: "Dell'immortalità dell'anima s'è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c'è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e più breve" [246a]. Questo passaggio è cruciale perché, come nota Franco Trabattoni (2009), stabilisce il valore epistemologico del mito come strumento conoscitivo complementare alla dialettica.

La descrizione dell'anima come "potenza d'insieme di una pariglia alata e di un auriga" [246a] introduce immediatamente la struttura tripartita che caratterizzerà tutto il mito. È significativo che Platone utilizzi il termine "δύναμις" (potenza) invece di parlare semplicemente di "insieme": questo suggerisce, come evidenzia Giovanni Reale ("Per una nuova interpretazione di Platone", 2003), che l'unità dell'anima non è statica ma dinamica, una forza in continua tensione.

Il testo prosegue con una fondamentale distinzione: "Ora tutti i corsieri degli dei e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po' sì e un po' no" [246b]. Questa differenziazione tra anime divine e umane è elaborata attraverso una precisa caratterizzazione dei cavalli: "Innanzitutto, per noi uomini, l'auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l'altro è tutto il contrario ed è di razza opposta" [246b]. La contrapposizione è resa in greco con una serie di termini che enfatizzano non solo la diversità morale ma anche quella ontologica dei due cavalli.

Particolarmente significativa è la descrizione del processo di ascesa e caduta dell'anima. Il testo stabilisce che "Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è inanimato, e penetra per l'intero universo assumendo secondo i luoghi forme sempre differenti" [246c]. Questo passaggio, come nota Luc Brisson ("Platon, les mots et les mythes"), stabilisce un principio fondamentale: l'anima è essenzialmente principio di movimento e vita.

La dinamica del volo è descritta con straordinaria precisione: "così, quando sia perfetta ed alata, l'anima spazia nell'alto e governa il mondo; ma quando un'anima perda le ali, essa precipita fino a che non s'appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra" [246c]. L'uso del verbo "μετεωροπορεῖ" (spazia nell'alto) è particolarmente significativo: come nota Christopher Rowe, suggerisce non un semplice movimento ascensionale ma un vero e proprio "camminare tra i corpi celesti".

La descrizione del "sopraceleste sito" rappresenta il culmine del mito: "In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall'intelletto, pilota dell'anima, quella essenza che è scaturigine della vera scienza" [247c-d]. L'accumulo di aggettivi negativi (ἀχρώματός, ἀσχημάτιστος, ἀναφής) serve, come evidenzia Pierre Hadot, a sottolineare la trascendenza assoluta della realtà intelligibile rispetto al mondo sensibile.

Il processo di contemplazione delle idee è descritto con precisa gradualità: "il pensiero divino è nutrito d'intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio" [247d]. Il verbo τρέφεται (è nutrito) suggerisce, come nota Catherine Rowett, un processo di assimilazione progressiva alla verità.

Di particolare interesse è la descrizione delle conseguenze della contemplazione: "Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell'essere che veramente è" [247d-e]. La distinzione tra la scienza del divenire e quella dell'essere vero riflette la fondamentale distinzione platonica tra doxa ed episteme.

La legge di Adrastea, che regola il destino delle anime in base alla loro capacità contemplativa, è esposta con particolare attenzione ai dettagli: "Qualunque anima, trovandosi al seguito di un dio, abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane intocca da dolori" [248c]. Il termine ἀπήμων (intocca da dolori) suggerisce non solo l'assenza di sofferenza ma una sorta di immunità ontologica.

La gerarchia delle reincarnazioni è presentata attraverso una precisa gradazione che va dal filosofo al tiranno. È significativo che il testo specifichi che "quella fra le anime che più abbia veduto si trapianti in un seme d'uomo destinato a divenire un ricercatore della sapienza e del bello o un musico, o un esperto d'amore" [248d]. L'associazione tra filosofia, musica e amore non è casuale ma riflette, come nota Giovanni Reale, la concezione platonica dell'unità delle vie che conducono alla verità.

La straordinaria ricchezza del testo platonico ha dato origine a una tradizione interpretativa altrettanto ricca. Plotino nelle Enneadi (IV, 3, 27) sviluppa in particolare il tema della caduta dell'anima, vedendo nel mito una descrizione del processo di emanazione e ritorno all'Uno. La sua lettura influenzerà profondamente tutta la tradizione neoplatonica successiva.

Sant'Agostino, pur non citando direttamente il mito nel "De Civitate Dei", ne riprende la struttura tripartita dell'anima per la sua teoria della volontà. Come nota Étienne Gilson ("Introduction à l'étude de Saint Augustin", 1929), l'influenza del mito platonico è evidente nella concezione agostiniana del conflitto interiore tra spirito e carne.

Nel Rinascimento, Marsilio Ficino offre una delle interpretazioni più complete del mito nella sua "Theologia Platonica". La sua lettura, che integra elementi neoplatonici e cristiani, vede nel volo dell'anima una rappresentazione del percorso umano verso la contemplazione divina.

L'interpretazione moderna del mito si è arricchita di nuove prospettive. La lettura psicoanalitica di Jung vede nel conflitto tra l'auriga e i cavalli una rappresentazione del rapporto tra l'Io cosciente e le forze dell'inconscio. James Hillman sviluppa ulteriormente questa interpretazione, vedendo nel volo dell'anima un archetipo del processo terapeutico.

Le interpretazioni contemporanee, come quella di Christopher Rowe in "Plato and the Art of Philosophical Writing" (2007), tendono a sottolineare il ruolo del mito nella strategia comunicativa platonica, vedendo nell'immagine del carro un modo per superare i limiti del linguaggio filosofico tradizionale.

La persistenza di questo mito nella storia del pensiero occidentale testimonia la sua straordinaria capacità di parlare a epoche e culture diverse, mantenendo intatta la sua forza illuminante sulla natura dell'anima umana e sul suo rapporto con la verità. Come conclude Franco Trabattoni, il mito del carro alato resta uno dei più potenti strumenti concettuali che la tradizione filosofica ci ha consegnato per comprendere la complessità della psiche umana e il suo orientamento verso la ricerca della verità.