Le regole morali del magistrato dipendono sostanzialmente dalla sua coscienza. Nessuna legge potrà mai predeterminarle. La vera riforma della magistratura, pertanto, parte da questo postulato.

"Il giudice - diceva Rosario Livatino - oltre ad essere, deve anche apparire indipendente. È importante che egli offra di se stesso l'immagine non di persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di persona seria, di persona equilibrata, di persona responsabile, e, potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire. Soltanto se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch'egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che effettivamente ha".

Partendo da questi imprescindibili presupposti, prima di lui uno spirito laico, come Piero Calamandrei, sentì il dovere di rimarcare, nel suo celebre “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, edito nel lontano 1954, che “il giudice deve essere distaccato da ogni legame umano, superiore ad ogni simpatia e ad ogni amicizia: ed è bene che i giudicabili lo sentano lontano ed estraneo, inaccessibile..”, che “il dramma del giudice è la solitudine perché egli per giudicare dev'essere libero da affetti umani e posto un gradino più su dei suoi simili....” e che “la indipendenza dei giudici, cioè quel principio istituzionale per cui essi al momento in cui giudicano debbono sentirsi svincolati da ogni subordinazione gerarchica, è un duro privilegio, che impone, a chi ne gode, il coraggio di restar solo con sé stesso....”.

Quella descritta dal Calamandrei è la figura ideale a cui il giudice deve tendere affinché dal suo agire e dal suo esempio dipenda in gran parte il buon funzionamento della Giustizia. Giudicare vuol dire equilibrio, il giusto mezzo aristotelico come forma mentis del giudice, che prescinde dalle proprie personali convinzioni e che deve essere percepito soprattutto da chi è giudicato. Il giudice non solo deve decidere imparzialmente, ma deve essere anche soggettivamente in una condizione di imparzialità che, oltre a caratterizzare l'atto giurisdizionale, sia anche una condizione soggettiva del giudice.

Le modalità di reclutamento, ciò che egli ha fatto in questo o quel processo, la sua storia personale, i rapporti privati o istituzionali che ha intessuto, finanche gli stessi comportamenti “privati” possono essere tutti elementi dai quali sia possibile trarre elementi pro o contro la sua imparzialità. Essere imparziale non significa che il giudice sia “indifferente” rispetto alla causa, bensì implica che, il giudice rispetto all'oggetto e alle parti della causa non sia parziale.

Occorre che i comportamenti del magistrato rispettino finanche l'apparenza di imparzialità, elemento essenziale perché il magistrato goda della fiducia dell'opinione pubblica. La fiducia del popolo nell'imparzialità del giudice è il bene più prezioso che costui possegga, ed è inoltre uno dei più pregevoli pilastri di una democrazia e di uno Stato di diritto. Il magistrato deve esercitare le sue funzioni con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e nel rispetto della dignità della persona umana, mentre, fuori dall'esercizio delle sue funzioni, non deve tenere comportamenti che compromettano la credibilità o il prestigio suo e dell'istituzione che rappresenta e di cui esercita la funzione.

La Corte Costituzionale ha giustamente sostenuto che: “nel disegno costituzionale, l'estraneità del magistrato alla politica dei partiti e dei suoi metodi sia un valore di particolare rilievo e mira a salvaguardare l’indipendente ed imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie, dovendo il cittadino essere rassicurato sul fatto che l'attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica”.

Un giudice non può non essere “politico” come lo è qualsiasi cittadino, non può non vivere, come del resto ogni altro consociato, in una sfera di appartenenza. A mio avviso questo profilo dell'impegno politico che si esprime nella manifestazione del pensiero è un diritto che va garantito al magistrato, ma assolutamente entro limiti ragionevoli, posti a tutela della imparzialità.

Personalmente sono favorevole al divieto di rientro in magistratura per coloro che hanno avuto un’esperienza politica. La toga è come il sacerdozio dal latino sacerdotium, composta da due parole: sacer e dotium . Sacer ("sacro") è sinonimo di "separato", per indicare persona integerrima non profana. Dotium ("potere") deriva da "dote", per indicare chi conduce, governa o amministra gli affari del proprio ufficio.

Di conseguenza il sacerdozio del magistrato indica un potere indipendente e imparziale nell’amministrare la Giustizia umana. In aula di udienza il giudice e il pubblico ministero fissano, scrutano, interrogano, giudicano ma come esseri umani a loro volta saranno fissati, scrutati, interrogati, giudicati da un giudice supremo: la loro coscienza. Per cui la vera grande riforma della magistratura a mio giudizio ripartirà proprio dalla coscienza del singolo magistrato.

Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, è associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). E' ricercatore dell'Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. E’ stato allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto.