Devo ammettere che rispetto al film di Barbie fossi piuttosto prevenuta a causa delle recensioni negative di una considerevole fetta di movimento femminista (che, perdonatemi, a volte sembra non voler apprezzare niente). Da qui - per evitare di sfociare nei consueti (e, ahimè, inevitabili) pregiudizi - la mia decisione di vederlo in streaming.

Premetto che inizialmente ho pensato: “Questa è soltanto un'altra trovata mainstream concepita per sfruttare il femminismo come operazione di marketing”. Tuttavia, è stata proprio la scena iniziale a catturare la mia attenzione, nella quale le bambine, immerse in un ambiente bianco e nero, giocano con vecchie bambole che consentiranno loro di incarnare il tradizionale ruolo di madri, socialmente imposto sin dal primo vagito. Sarà proprio l'entrata in scena di Barbie, sebbene chiaramente oggettivata, ad ispirare queste bambine a perseguire i propri desideri e a percepirsi oltre la meta funzione di madri relegate alle mura domestiche, nella terra dell'impossibilità. Trovo di una potenza comunicativa estremamente singolare la scena in cui le bambine, al fine convalidare la propria emancipazione dall'oppressione, distruggono le bambole contro le rocce, finendo per disintegrarle.

Ho trovato l'interpretazione di Margot Robbie, l'attrice protagonista, sorprendentemente impattante in termini di espressività, benché all'inizio sembrasse mancare di personalità (credo sia possibile che tale caratterizzazione fosse intenzionale da parte della regista). Inizialmente s-personalizzata e aderente all'immagine stereotipata di Barbie, il personaggio è riuscito a liberarsi dalle tradizionali imposizioni sociali patriarcali una volta ristabilito un contatto diretto con la realtà e posati i talloni a terra, acquisendo un'autonomia decisionale che emerge progressivamente nel film. 

Un altro aspetto che ho apprezzato di questa pellicola - e che la distingue da molte altre opere che affrontano da vicino le tematiche di genere - è l'ampio spazio conferito al consenso e al concetto di autodeterminazione femminile. È ravvisabile fin da quando Ken invita Barbie a trascorrere la notte insieme e lei opta, invece, per una serata con le amiche, così come quando lo stesso tenta di baciarla senza successo. Ciò che è notevole è che in nessun momento emerge una reazione aggressiva o di dominio da parte del personaggio maschile o che potrebbe sfociare in violenza. È importante osservare come nella realtà sia raro che un uomo accetti un rifiuto senza rispondere con espressioni denigratorie, minacce, stupri e femminicidi.

In questa pellicola si riscontrano molteplici elementi ed eccezionali peculiarità che, uniti insieme, creano un vero e proprio tripudio della diversità. C'è di tutto, davvero di tutto. Nel regno di Barbieland, emerge una forte connessione tra le donne anzichè la consueta e prevedibile rivalità. Ognuna di esse, indistintamente, ha raggiunto i propri obiettivi e può essere contemplata nel ruolo di varie professioni, tra cui medico, muratore, parrucchiera, spazzina, astronauta, pilota e avvocata. Si può notare una grande varietà anche nell'aspetto delle Barbie, che possono essere eleganti, sportive, sovrappeso, di colore, in gravidanza, alte, basse e che rasentano tematiche come la depressione, l'ansia e gli attacchi di panico. L'ampia gamma di rappresentazioni è veramente completa. Questo rappresenta un autentico trionfo della diversità, in tutte le sue sfumature, valorizzata come un elemento positivo, anziché come una colpa: un'ode all'unione tra donne in cui le Barbie più snelle non giudicano quelle sovrappeso (o viceversa) e quelle senza problemi di salute mentale non perpetuano abilismo su chi ne è affetto.

Tagliente il parallelismo con il famoso film "Matrix", in cui la protagonista si trova di fronte ad un bivio tra una realtà perfetta ma utopica - simboleggiata in maniera apprezzabilmente evocativa da un tacco 12, dal quale, se solo avesse avuto la fortuna di essere dotata di piedi piatti, avrebbe volentieri fatto a meno - e la concretezza del mondo reale, simboleggiata da un paio di ciabatte, atte alla riconquista di un'identità perduta.

L'imprinting emotivo nel momento in cui la protagonista si addentra nel mondo reale è stato incredibilmente intenso. Una volta entrata in contatto con l'adolescente “cresciuta troppo in fretta” si apre un dialogo paternalistico in cui quest'ultima svela le ragioni profonde del suo odio viscerale verso le Barbie. Da qui prende avvio un monologo che tratta questioni quali l'oggettificazione sessuale, il capitalismo la costante nonché ossessiva ricerca di perfezione e la pressione esercitata dai canoni e dagli standard sociali sulle giovani generazioni fin dai tempi più antichi. Mi ha entusiasmata Emma Mackey con la sua interpretazione travolgente, ma allo stesso tempo mi ha indotta a provare una profonda tenerezza nei confronti di Barbie, la quale, in seguito a queste disquisizioni, benché veritiere, scoppia in lacrime, difendendosi con un timido ma sentito: "Io ho sempre voluto aiutare le donne, come puoi dire queste cose?". È stato in quel momento che ho avvertito una forte connessione empatica, identificandomi con la protagonista. Mi ha riportato alla mente i tempi in cui, all'inizio delle mie battaglie femministe, mi sono trovata a essere ripresa più volte da altre sorelle per le mie tendenze oggettivanti, per gli abiti poco consoni rispetto all'idea di femminismo, per l'aspetto esteriore, quale requisito per ottenere credibilità e via dicendo. Tuttavia, questo film è stato in grado di confermare ciò che ho sempre pensato: l'oggettificazione risiede negli occhi di colui che giudica, non nei nostri corpi e ancor meno nella nostra scelta di adornarli.

Straordinaria la scelta di America Ferrera nel ruolo di Gloria. Tra tutti i personaggi del cast, è stata sicuramente la più genuina: nessuno avrebbe saputo recitare un monologo femminista, fulcro centrale del film, meglio di lei. Ho avuto modo di percepire, e credo che converrete con me, i vecchi influssi della storica e amata "Ugly Betty", ruolo che ha preservato con le unghie e con i denti fino alla fine. Per la rubrica "Gli uomini sono i peggiori nemici degli uomini," ha brillantemente seminato il sentimento di solidarietà femminile mentre Barbieland si trasformava in Kenland, applicando sui vari Ken le medesime condotte espletate dal patriarcato: disaccordi tra uomini, competizione, odio, guerra, vendetta. Cose che, ammettiamolo, noi donne abbiamo avuto modo di sperimentare in più occasioni.

Marginale, ma imprescindibile, è stata anche l'interpretazione di Kate McKinnon nel ruolo eccentrico di “Barbie Stramba”. Quante di noi non si sono mai ritrovate intente a perpetrare il delitto e lo smembramento di una Barbie? Quanto abbiamo amato queste inconfondibili bambole per la loro apparenza e quanto le abbiamo detestate per la medesima ragione, tanto da trasformarle in autentici mostri, tagliando i loro capelli come se fossimo rinomate parrucchiere di New York city e truccandole convinte di essere celebri make-up artist? E soprattutto, quanto le abbiamo bistrattate, lasciandole a gambe divaricate in un cesto di vimini, divorato dai topi nello scantinato di casa?

Semplicemente edificante è stato l'approfondimento di tematiche come il catcalling, le molestie, la cultura dello stupro, l'inadeguatezza che imperversa tra le giovani, i doppi standard, il gendergap e la disparità nel mondo del lavoro.

È doloroso ammettere che nessuno avrebbe potuto spiegare il patriarcato in maniera più eloquente di Ken, interpretato dal sublime Ryan Gosling (che personalmente preferisco nel ruolo di Noah in "Le pagine della nostra vita"). Nonostante, di primo acchito, appaia inattivo rispetto agli altri membri del cast, ci rivela, scena dopo scena, i meccanismi impliciti del sistema patriarcale con una dolcezza fuori dal comune. Da essere che vive di luce riflessa e come estensione di Barbie, spersonalizzato e destinato al rifiuto, nel mondo attuale scopre una realtà in cui è attivo, coinvolto e autodeterminato. Gli sguardi delle persone lo fanno sentire rispettato, amato e preso in considerazione, così ha l'opportunità di sperimentare il patriarcato anche attraverso i libri e adotta lo stesso meccanismo in Barbieland. Intenso è il monologo finale in cui Barbie gli insegna che per autodeterminarsi non è necessario sopraffare gli altri, ma basta riconoscere la propria identità e brillare di luce propria. E no, non è necessario che Barbie e Ken siano fidanzati, nemici o rivali, o che sopprimano le loro lacrime per affermare il loro potere, ma possono essere amici, collaboratori, due realtà distinte che non negano la propria individualità poiché entrambi sono importanti.

Aspetti negativi? Davvero marginali. In qualità di ballerina, avrei prestato maggiore attenzione alle coreografie, ma suppongo che la regista avesse l'intenzione di proporre un film di sensibilizzazione, piuttosto che un musical. Purtroppo, essendo una grande appassionata di film musicali, non ho potuto ignorare questa lacuna. Inoltre, per onestà intellettuale, avrei optato per un diverso colore nell'ambientazione di Barbieland e avrei esteso la durata del film, optando per soundtrack non commerciali e affrontando in chiave meno umoristica anche i temi dei disturbi alimentari e delle malattie mentali.

Tuttavia, valutando l'insieme, mai avrei immaginato di provare emozioni intense guardando Barbie, men che meno di commuovermi. Credo fermamente che le nuove generazioni godano di maggiori privilegi rispetto alle precedenti, in cui il femminismo era considerato una parolaccia e nessun film si interessava così profondamente di questioni legate alla parità di genere. In ogni caso, questa pellicola ha trionfato: fa ridere, fa piangere, emozionare e talvolta imprecare, ma soprattutto ci insegna che, con o senza cellulite, con o senza tacchi, con o senza figli, con o senza ambizioni, tutte, assolutamente tutte, possiamo essere Barbie.

Ilaria Di Roberto