Il 2021 sarà ricordato anche per le immagini agghiaccianti dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Almeno sarà (forse) ricordato, a partire dall’intenzione espressa da un governo che non “ha intenzione di dimenticare”, il governo rappresentato da Mario Draghi e la Ministra Marta Cartabia, che a luglio, in visita nel carcere, ha testimoniato la volontà di affrontare “le conseguenze delle nostre sconfitte”. Le indagini in corso stabiliranno le responsabilità cosiddette individuali, ma la responsabilità “collettiva” è quella di un sistema che va riformato, per una giustizia giusta. A partire dal baratro strutturale  del sovraffollamento, che attesta, sulla carne viva delle persone, l’abuso dell’istituto carcerario contro lo Stato di Diritto e i Diritti Umani.

Ma sappiamo pure che di buone intenzioni è lastricato l’inferno, e che i parlamenti non godono di una buona memoria. Basterebbe infatti ricordare il messaggio alle camere del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano sulla questione carceraria, controfirmato dall’allora Presidente del Consiglio dei ministri, Enrico Letta, l’8 ottobre 2013.  

Il messaggio formale del Presidente della Repubblica prendeva atto della Sentenza Torreggiani, adottata l’8 gennaio 2013, che aveva condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), ossia la violazione del diritto dei detenuti di beneficiare di condizioni detentive adeguate, e non disumane e degradanti, cioè torture.

La sentenza inoltre sottolineava come la violazione non fosse la conseguenza di episodi isolati legati ai ricorrenti, ma di “un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano”, una prassi insomma, attestata, e “incompatibile con la Convenzione". Talmente incompatibile che pure per quanto riguardava i rimedi, la Corte raccomandava all’Italia di ricorrere il più possibile a misure "alternative" alla detenzione e a riorientare la politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione. Inoltre auspicava l’immediata cessazione degli effetti lesivi della Convenzione.

Un dovere “urgente”, obbligo dei poteri dello Stato, di far cessare il sovraffollamento carcerario rilevato dalla Corte di Strasburgo, quasi più urgente del legittimo ristoro per le condizioni di sovraffollamento già patite dal detenuto, perché ristoro non sufficiente a tutelare il diritto umano della persona. Senza contare poi il danno economico per le finanze pubbliche a causa dell’irragionevole durata dei tempi dei processi e gli effetti drammatici di ingovernabilità delle carceri. 

Il messaggio del presidente della Repubblica sottoponeva dunque all'attenzione del Parlamento l'inderogabile necessità di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all'Italia dalla Corte di Strasburgo: un imperativo giuridico e politico, e al contempo, un imperativo morale. Più semplicemente un "dovere costituzionale".

Sono passati otto anni, e la situazione rimane drammatica. Crescono i suicidi. Risorgono le mattanze. Neanche la Pandemia è riuscita a riformarci. Semmai ha reso impronunciabili le parole indulto e amnistia. Due assenze riconducibili a una diffusa ostilità agli atti di clemenza, funzionale ai giochi della partitocrazia s/fascista, promossa nell'opinione pubblica. 

Appare, dunque, indispensabile e sempre urgente, eccezionalmente urgente a questo punto, avviare una decisa inversione di tendenza della detenzione, proprio a partire dalle condizioni di vita dei ristretti. Come scriveva il presidente Napolitano: "si tratta di questioni e ragioni che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni della politica carceraria e della politica per la giustizia".

La giustizia penale “riparativa” ci offre una prospettiva comune e di avanguardia: riparare l’offesa attraverso azioni utili alla vittime, fuori e dentro le carceri, riformando le istituzioni stesse ancora deputate al controllo repressivo. Il termine “giustizia riparativa” ci indica infatti un paradigma alternativo a quello della mortale pena vendicativa. Suggerisce infatti uno spazio di relazione vivente e abitato, un luogo di coesistenza e di elaborazione incorporata della violenza che ripari la stessa dignità umana: ogni persona è degna di essere riconosciuta in quanto tale. Nell’atto di riconoscimento della vittima, e del danno, si apre quella dimensione di responsabilità collettiva che ci rende tutti corresponsabili. Riparativa perché ricorda, riconosce e rimedia il danno, senza gli effetti dannosi di un ritorno traumatico del rimosso (o di una recidiva). Riparativa perché non produce ulteriore ingiustizia, non genera repressione e risentimento, non riproduce il senso originario dell’ingiustizia patita.  Giustizia giusta, anche, e a partire da un messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere o da una visita del Presidente del Consiglio dei ministri nel carcere, perché non può esserci un diritto senza dovere, un vedere senza esser visto, un toccare senza essere toccati. Cari parlamentari, insomma, fatevi - e fateci - un regalo, a Natale andate in visita nelle carceri.