I componenti di un gruppo sono come i pezzi degli scacchi. Abbiamo pezzi pesanti, come donna e torre, e pezzi leggeri, come cavallo e alfiere. Ogni pezzo ha le sue proprietà, potremmo dire “idee”, per muoversi nella scacchiera, corroborati dai pedoni. Anche loro acquistano movimenti alquanto complessi.
Un torneo di scacchi può durare tutta la vita. E quello di cui parlo dura davvero da tanto.
Tutti i pezzi hanno la missione di proteggere il proprio “leader debole”, il re; e al contempo attaccare quello avversario. Negli scacchi il re è debole perché si muove libero ma lento, una casella (casa) per volta. Nella realtà potremmo dire che la metafora disegna un leader che senza l’appoggio del proprio gruppo, con tutti i pezzi che lo compongono, non va da nessuna parte. Non copre nemmeno la distanza di quella casella per volta.
Non possiamo fare a meno di chiederci cos’hanno in mente i vari pezzi quando si avvicenda un nuovo leader tra diversi pretendenti, ciascuno latore di una diversa linea di pensiero. E questa linea sarà nuova guida e destino del gioco sulla scacchiera. Il pretendente vittorioso scelto dal collettivo, verrà sostenuto adeguatamente da pezzi e pedoni che caratterizzano il gruppo?
Dipende, naturalmente.
Se il nuovo leader ha potere immediato di ridisegnare tutti i pezzi che lo assisteranno, il problema non si pone. Il problema è casomai di chi subirà la partita in un’alea più o meno da regime. Ed è così in qualunque sistema, anche il più democratico del mondo. Il potere è costituito dal leader vittorioso che richiama a sé i pezzi più fidati, in misura più o meno forte rispetto al modo in cui si è concentrato il consenso in suo favore: a maggior stabilità corrisponde maggiore accentramento di potere.
Con più anime, invece, abbiamo certamente la garanzia di un parvente pluralismo, il quale favorisce la contropartita del pedissequo e prematuro troncamento della partita. Alfieri, cavalli, torri, e perfino le regine, ciascuno batte cassa presso il re, e se non si riterranno soddisfatti mancherà il loro sostegno e faranno le mosse più disparate.
Proprio come negli scacchi non è possibile separare le strategie del re con quelle di tutti gli altri pezzi. E nessun pezzo può avere strategie proprie. La mano che sta al di sopra di tutti loro dovrebbe caratterizzare la linea della partita. E quella mano è quella dello scacchista, ossia quel collettivo che permette al gruppo di esistere delegandolo a fare le mosse corrette. Non quelle per singola o ristretta convenienza, talvolta nemmeno legate a fraintesi o millantati bisogni del collettivo stesso.
Anche il più abile e carismatico leader sarà debole e inerme al cospetto di un gruppo che non sostenga la sua guida. E possono accadere due cose: la sua prematura dipartita, o la più probabile assimilazione.
Ritenere che il leader nuovo possa cambiare un gruppo vecchio e radicato in strategie personalistiche, intento a conservare il proprio status e a favorire persino le mosse avversarie, travalica anche dall’analisi metafisica delle cose. Per chi ha compreso bene la logica degli scacchi è molto meglio - anche più dignitoso - abbandonare e iniziare una nuova partita. Lasciando che il vecchio gruppo si estingua con il leader più appropriato.
Concentrare il proprio talento per formare nuovi gruppi, questo può servire. Commettere errori, abbandonare, e ricominciare ancora. In un ciclo continuo. Presto o tardi si arriva.
E’ una visione. Ma faccio i miei migliori auguri a Elly Schlein per la sua difficile partita e importante chance nel poter finalmente “aggiustare” un gruppo clamorosamente sfasciato e privo di personalità. Ancor più mi auguro che non vengano sabotati per l’ennesima volta i buoni propositi e gli obiettivi di sinistra: obiettivi e non idee.
Perché sono umanamente buoni obiettivi.
📸 base foto: Partita a scacchi (1555), olio su tela di Sofonisba Anguissola