Il rapporto del nuovo mondo (chiamiamolo così, come sviluppatosi dal convenzionale 1492 D.C.) col vecchio è stato sano? Domanda retorica, no. Dal momento in cui il vettore culturale è partito a traino binario, tutto il resto è divenuto una rappresentazione antropologica, a ondate: di moda o da demonizzare. Isoliamo per un momento pesanti discorsi sulla colonizzazione, con l’handicap di posizionamenti ideologici che stanno perdendo di senso; eventualmente si acquisisse, auspicabilmente, un nuovo lessico legato a più adeguati ideogrammi, se ne potrà ragionare a mente sgombra.

Non a caso abbiamo tirato in ballo le modalità di scrittura tipiche di certe zone asiatiche; puntiamo lo sguardo sui due paesi che più si sono affacciati alle nostre cronache dal dopoguerra ad oggi, considerando la data del 28 febbraio 2020, prima dello sconvolgimento mediatico che ha provocato commenti non sempre consapevoli, e un cenno all’India.

Apparteniamo alla generazione che talora si definisce “nata prima del Vietnam”, vicenda dolorosa che avvicinò il nostro implume sguardo a remote terre, allora davvero più misteriose di una galassia sconosciuta e poi rivenduta, per quello specifico paese, in salsa hollywoodiana. Dopo la fine della guerra (1975) si scatenò un’ondata di adozioni internazionali dei bambini di quel territorio, o limitrofi. Per i fortunati che riuscissero a trovarlo, abbiamo una proposta di lettura: “Un figlio per cinque giorni”, dell’angiologo Mauro Bartolo, reperibile magari contattando il figlio Michelangelo: ne vale la pena.

Una larga fetta di quel continente è stato a lungo sotto la cappa sovietica e tuttora paesi come Kazakistan e similari ( per noi), restano pianeti lontani: pensiamo solo al Nagorno Karabakh e alle complesse vicende armene.

Torniamo a bomba, con i nostri diletti esempi cinematografici, ricordando un film ingiustamente negletto, “La moglie giapponese”, 1968, interpretato dall’indimenticabile Gastone Moschin, un vero hapax per Cinecittà, che di rado si era occupata di quelle lande, se non scherzosamente: per esempio con il musicarello “Mi vedrai tornare”, 1966, vagamente ispirato alla “Madama Butterfly”, dove Gianni Morandi si innamora di una principessa nipponica. L’approccio italiano si esaurisce quasi in questi termini, a parte lo scambio tra paesi: noi abbiamo preso dal Giappone le mitiche automobili e la tecnologia, loro, spesso i nostri cantanti, ma siamo rimasti diversamente umani. Negli anni novanta, ancora, in una puntata di “Tempi moderni”, con la multiforme Daria Bignardi, ci si chiedeva come potesse vivere una coppia di marito italiano e moglie giapponese.

Qualche problema culturale può sussistere e ne abbiamo una testimonianza personale: allorché una nostra connazionale sposò un ingegnere di colà, conosciuto on line e lo trascinò in Italia, dove il malcapitato resistette pochissimo e fuggì quanto prima, lasciando la sposa in lacrime. D’altro canto, il mitizzato Ruggero Orlando, giornalista della prima RAI che, agitato e sudato ci parlava da “Nuova York” aveva raccontato delle difficoltà incontrate da suo figlio, allorché si intestardì a sposare una ragazza cinese. Nulla di strano, se ancora adesso si scontrano mentalità all’interno del nostro paese: che attendersi in casi come questi?



Gli americani hanno sempre calato i loro assi, un titolo per tutti: “Il mondo di Suzie Wong”, 1960, celeberrima performance di William Holden, alle prese con un amore dagli occhi a mandorla, ma gli unici tentativi rimarchevoli per lanciare star con quelle origini si contano: massimo rispetto per i personaggi collaterali, spesso genietti in scienza e informatica,  ma rimangono  sostanzialmente gli archetipi, come Bruce Lee o l’impossibile coppia mix (per una volta non bianconera) in “Romeo deve morire”, 2000, con l’indimenticata Aaliyah. I riot del 1993 a Los Angeles rimisero in pista l’attenzione al reciproco gelo, quando non odio, tra comunità black e yellow.

Purtroppo la contrapposizione tra Giappone e Cina ha sovrastato la storia asiatica ai nostri occhi, con il suo proprio carico ideologico allungato a nostro uso e consumo, ragion per cui i “nippo” erano amati dalla destra, “ i cinesini” dai sinistri: e così siamo arrivati ai giorni nostri, senza aver mai, e aggiungiamo vergognosamente, nemmeno tentato di approfondire, in questo bene aiutati dai media prestati al gioco.

Al massimo la lontana isola era celebrata per il progresso, i movimenti modaioli, gli autori di tendenza, e pazienza per quelle magnificenti ma inquietanti nozze tra il principe ereditario Naruhito e la spaventata Masako: l’ex brillante donna in carriera veniva da una famiglia coinvolta in uno scandalo ambientalista (sensibilità poco coltivata laggiù, come pure la ridottissima apertura agli stranieri, con l’eccezione dei brasiliani). Dopo le nozze nel 1993 la principessa ha faticosamente generato solo una femmina e la successione è passata ai figli del cognato; mentre lei, oggi teoricamente imperatrice, come già la regina madre, pare ondeggi tra una depressione e l’altra. Ma chissà che succede, laggiù, chi ne sa mai nulla.

Un passetto appena in Mongolia, per segnalare uno spunto di conoscenza: il film “Il matrimonio di Tuya”, 2006, bellissima opera locale di nicchia (per noi qui, quantomeno).

Dell’India si potrebbe parlare molto, ma noi saremo laconici: tra eroi dell’indipendenza oggi un po’ loffi, suore sotto accusa per aver glorificato la miseria e una quasi first lady, Sonia Maino in Gandhi, che deve fare dimenticare le origini italiane e, nella vicenda dei marò, quasi dichiarava guerra al suo ex paese,  lanciamo la palla ad esperti, si spera onesti.

Naturalmente, e col fichissimo veicolo dei vip, abbiamo abbondantemente attinto al mondo new age, allo yoga, alle filosofie orientali: di massima, inutilmente.



Per la Cina, pesantemente sotto accusa causa l'invasione, soprattutto in Italia, delle sue attività, tema sul quale Roberto Saviano ha speso parole da alcuni denunciate come degne di una mendace telenovela neomelodica, ci permettiamo di suggerire, per chi non lo conoscesse, la lettura di un libro: “Cigni selvatici – tre figlie della Cina”, uscito trent’anni fa, autrice Jung Chang.

Si tratta di un lavoro ferocemente ideologico, ma che molto insegna sulla loro storia: contiamo che i nostri sette lettori avranno imparato a scremare e raggiungere il cuore vero di un’espressione artistica. Poi ne riparliamo.