Il Decreto dignità rappresenta il primo atto legislativo del nuovo Governo italiano e può essere considerato un ribaltamento del precedente “Jobs Act” introdotto dal Governo Renzi. Si tratta del decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, recante disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese e per questo conosciuto e definito anche come “Decreto dignità”. Dopo il consenso della Camera e il via libera definitivo del Senato, il Decreto diventa legge, con grande soddisfazione dei pentastellati al governo che lo hanno fortemente voluto e ne sono stati i promotori una volta insediatosi all’esecutivo. Il Decreto, in sede di conversione non ha subito modifiche sostanziali rispetto a quelle che erano le originarie intenzioni del Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi di Maio, che ne è stato il principale fautore e che, considerato l’esito, ha visto esaudite in pieno le proprie aspettative.
Il Decreto dignità è stato oggetto di dispute e contrasti tra politici ed economisti e su di esso ne sono state dette di tutti i colori. Abbiamo assistito sin da subito ad una campagna mediatica portata avanti dai politici dell’opposizione e dai mezzi d’informazione ad essi compiacenti (o soggiacenti) tutta a sfavore del Decreto, come se questo fosse quanto di peggio si potesse fare per distruggere l’economia del Paese, aumentare la disoccupazione e il clima d’incertezza degli italiani. Molti dei principali quotidiani nazionali pur di screditare il nuovo decreto non si sono limitati a schierarsi partigianamente, senza reticenze e con argomentazioni traballanti, dalla parte dei partiti e delle lobby cui sono asserviti, ma sono andati oltre, spingendosi verso la menzogna e l’infamia, diffondendo notizie false senza preoccuparsi di verificarne prima la veridicità. È il caso “Tony Nelly”, alias Simone Bonino, il “giovane che ha perso il lavoro per colpa del Decreto dignità”: hanno preso un tweet pubblicato su Twitter e senza pensarci due volte lo hanno strumentalizzato per meri fini propagandistici. Lo hanno fatto con lo stile di sempre, pubblicando la notizia con titoli grandi quanto le loro menzogne, e poi una volta scoperta la verità, silenzio, neppure due righe per giustificare l’errore (errore?). Tutto ciò per sostenere un’unica falsità, ovvero che il Decreto faccia perdere posti di lavoro. Viene da chiedersi: anche se si fosse trattato di un caso vero, basterebbe un licenziamento, la decisione di un datore di lavoro, per mettere in discussione una legge che riguarda milioni di lavoratori?
Nonostante si sia parlato tantissimo dei punti principali del Decreto dignità, vale la pena riassumerli, seppur sinteticamente, per meglio valutare la portata dei commenti, delle numerose critiche che su di esso sono state fatte, e chiedersi se le stesse siano frutto di ragionamenti ponderati o di assurde e pretestuose strumentalizzazioni politiche ed economiche:
Contratto di lavoro a termine: è il punto caldo del Decreto, quello che ha generato tutte le polemiche, introducendo una nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato. In ogni azienda, da adesso, la percentuale massima dei contratti a tempo determinato non potrà superare il trenta per cento rispetto a quella a tempo indeterminato. La durata massima dei contratti a termine è fissata a 12 mesi (prima era 36) estendibile fino a 24 indicando specifiche motivazioni; in questo caso per il datore di lavoro scatterà un aggravio contributivo dello 0,5 per cento, non previsto però per colf e badanti e, qualora le causali non venissero considerate valide, scatterà automaticamente la trasformazione in contratto a tempo indeterminato a partire dal tredicesimo mese. Inoltre, è stata elevata l’indennità dovuta dal datore di lavoro in caso di licenziamento illegittimo e dove vi sia un’offerta di conciliazione. Si passa infatti da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità rispetto a prima che era da 4 a 24 mensilità.
Delocalizzazione: sono previste sanzioni severe nei confronti delle aziende che dopo aver ricevuto aiuti economici dallo Stato trasferiscano la propria attività o parte di essa in Paesi al di fuori dell’Unione Europea entro cinque anni dalla data di concessione dell’agevolazione.
Gioco d’azzardo: allo scopo di contrastare la ludopatia è previsto lo stop a qualsiasi forma di pubblicità relativa a giochi o scommesse di denaro.
Esonero contributivo: permette fino al 2020, per un periodo massimo di 36 mesi, alle aziende che assumono i giovani al di sotto dei 35 anni (anziché 30 come previsto precedentemente) con contratto di lavoro a tempo indeterminato, di usufruire dello sgravio contributivo pari al cinquanta per cento sui contributi previdenziali versati in favore del lavoratore.
Fisco: viene confermato il rinvio a gennaio 2019 dell’obbligo di fatturazione elettronica per le vendite di carburanti ai soggetti con partita IVA e prorogata fino a dicembre 2018 la possibilità per le aziende di compensare crediti nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni con eventuali somme iscritte a ruolo per imposte erariali. Viene eliminato lo spesometro, disattivato il redditometro (fintanto che non venga revisionato) e abolito lo split payment per i professionisti, cioè il meccanismo che non consentiva di incassare l’IVA sulle fatture emesse nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni.
La prima a mettere in discussione il Decreto dignità è stata Confindustria: “Comporterà un aumento del contenzioso che le riforme degli anni scorsi avevano contribuito ad abbattere” dichiara. “Il fatto che per contratti tra i 12 e i 24 mesi sia richiesto alle imprese di indicare le condizioni del prolungamento esponendole all’imprevedibilità di un’eventuale contenzioso, finisce nei fatti per limitare a 12 mesi la durata ordinaria del contratto a tempo determinato, generando potenziali effetti negativi sull’occupazione oltre quelli stimati nella Relazione Tecnica al Decreto”.
Ecco invece come si sono pronunciati alcuni dei principali esponenti dell’opposizione durante il loro intervento in Camera e in Senato durante la votazione del Decreto:
Mariastella Gelmini, presidente dei deputati di Forza Italia: "È il primo passo verso la decrescita. Noi voteremo orgogliosamente 'no' a questo decreto. E ci auguriamo che questo governo nemico del lavoro e dell'impresa vada a casa il prima possibile".
Maurizio Martina, deputato e segretario del PD: "Voi non avete costruito la Waterloo del precariato. Avete costruito la Caporetto della vostra propaganda, ma a rischiare di pagare sarà il Paese”.
Andrea De Bertoldi, senatore di Fratelli d'Italia: "Se l'intento era quello di andare verso la decrescita felice, forse ci state riuscendo. Le piccole imprese stanno reagendo con rabbia a questo decreto che impone lacci e lacciuoli”.
Francesco Laforgia, senatore di LeU: “Da parte del governo c'è stato un atteggiamento incomprensibile sull'impegno di ritornare a parlare della possibilità di reintrodurre l'articolo 18. C'è una distanza molto forte, incolmabile, tra il titolo 'dignità' e gli effetti che il Decreto dispiegherà".
La prima cosa che mi verrebbe da dire a commento di così tanta inventiva e che, per quanto ci si sforzi di farlo, riesce veramente difficile accettare critiche negative da chi avendo governato per oltre venticinque anni, abbia prodotto solo disastri, e non sempre in buona fede. Tuttavia, superata l’impasse, diciamo che ciò che i signori dell’opposizione non tollerano del Decreto dignità è il fatto che riduca la flessibilità dei lavoratori dipendenti, flessibilità che è sempre stata chiesta dalle imprese con la scusa di migliorare la ripresa economica e di favorire l’occupazione. Ma la flessibilità nel tempo si è trasformata in una maggiore precarizzazione del lavoro, rendendo il lavoro a tempo determinato una condizione di normalità a cui gran parte dei lavoratori devono assoggettarsi, pena la perdita del lavoro o l’impossibilità ad ottenerlo. Inoltre, i lavoratori a tempo determinato sono in grado di soddisfare i bisogni permanenti delle aziende, consentendo loro di crescere, sviluppare la propria progettualità e pianificare il loro futuro, senza per contro usufruire di quei vantaggi permanenti che spettano di diritto ad ogni lavoratore dipendente. Nel rapporto di lavoro a tempo determinato si concretizza quindi una sperequazione tutta a favore dell’azienda, potendo quest’ultima contare sempre sulle prestazioni del lavoratore, a differenza del lavoratore che invece non può contare sulla stabilità della sua occupazione.
Il precariato è un fenomeno che in Italia ha raggiunto livelli di allarme sociale, ma nonostante ciò continua ad espandersi. I dati diffusi dal Ministero del Lavoro, infatti, evidenziano la superiorità numerica dei contratti di lavoro a tempo determinato in tutte le regioni, a conferma di una sempre più evidente disorganicità in tutti i settori di attività economica, fatta eccezione per la Pubblica Amministrazione. Attualmente i contratti a tempo determinato rappresentano il settanta per cento del totale dei contratti lavorativi, con un aumento progressivo rispetto agli anni precedenti. Oltre a ciò, il numero delle trasformazioni dei rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato continua a subire flessioni al ribasso, segno evidente del fatto che le imprese sempre più tendono ad adagiarsi sulla flessibilità lavorativa, a danno ovviamente dei lavoratori.
La precarietà lavorativa rende più debole qualsiasi Paese, non potendo contare sulla stabilità economica dei propri cittadini, assillati dall’ansia di un domani incerto e dall’impossibilità di progettare il proprio futuro. Diversi studi hanno dimostrato che i giovani assunti con contratto a tempo determinato hanno più possibilità di avere una salute mentale e fisica peggiore rispetto ai loro coetanei con un lavoro stabile, con notevoli ripercussioni a livello familiare, sociale e anche lavorativo, a scapito quindi della qualità del lavoro stesso e delle imprese. Questo è uno dei tanti motivi che ha indotto il 31 maggio scorso il Parlamento europeo ad adottare una risoluzione che invita la Commissione europea e gli Stati membri a combattere il lavoro precario e l’uso abusivo dei contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico e privato dell’UE. Il Decreto dignità varato dal Governo giallo-verde dimostra di aver interpretato perfettamente il senso della risoluzione del Parlamento europeo e oltre a combattere la precarietà e a migliorare le condizioni lavorative dei lavoratori dipendenti mette l’Italia in linea con i Paesi dell’UE più virtuosi in termini di diritti lavorativi.
I partiti dell’opposizione hanno fatto di tutto (complice gran parte della stampa e tutto l’establishment dei poteri economici forti) per far passare il Decreto come una manovra a danno delle imprese e del lavoro che avrebbe portato alla perdita di 80.000 posti di lavoro in dieci anni (chissà perché non 800.000 in cento anni), stime fatte dall’INPS su richiesta del suo presidente Tito Boeri e avallate dalla Ragioneria Generale dello Stato, spuntate guarda caso la notte prima che il Decreto venisse inviato per la firma al Quirinale. E non è certo un caso che a richiedere queste stime sia stato proprio Tito Boeri, messo a capo dell’importante Ente dal PD durante il Governo Renzi, partito che risulta essere il maggiore oppositore del Decreto dignità. Sarebbe anche interessante capire il perché di questa assurda opposizione da parte del PD ad un decreto la cui unica “colpa” è quella di modificare la durata predeterminata del rapporto di lavoro, migliorandone la disciplina e intervenendo sulla durata massima, sulle proroghe, sulla causale, sui termini di impugnazione e sulla contribuzione. Com’è possibile, viene da chiedersi, che un partito che si è presentato sempre come di sinistra, che ha costruito in passato la sua fortuna politica schierandosi a favore dei lavoratori, passi improvvisamente dall’altra parte, da quella cioè delle imprese, con la scusa che il Decreto porti ad una perdita di posti di lavoro? Certo, è giusto che qualcuno difenda anche le imprese (ammesso che sia necessario farlo), ma di questo ad occuparsene non sono mai stati i partiti di sinistra. Trovo inconcepibile che ha farlo sia un partito che dovrebbe stare sempre in prima linea per la difesa dei diritti dei lavoratori. Dobbiamo quindi pensare che si sia voluto strumentalizzare un decreto a tutela dei lavoratori per puri scopi politici? Per mettere in cattiva luce un governo che sta facendo bene il suo lavoro? O più semplicemente che il vero PD non esista più e che dietro questo acronimo farisaico operi un partito di centrodestra, se non addirittura una forza conservatrice di destra liberista connivente con i poteri economici forti? D’altra parte le recenti vicende di cui questo partito è stato protagonista non ci portano certo da un’altra direzione. L'Air Force Renzi (giusto per citare l’ultima) con le sue trecento poltrone superimbottite e futura suite annessa, non era certo nato per trasportare lavoratori a tempo determinato.
Ciò che non si è capito (o che si è fatto finta di non capire) del Decreto dignità è che non è stato pensato per tutelate solo i lavoratori dipendenti, a svantaggio delle imprese, quanto piuttosto per creare un equilibrio tra di loro. La precarietà è un problema che riguarda la società intera, e la società è fatta da tutti, anche dagli imprenditori. Apparentemente l’impiego di contratti a tempo determinato sembra favorire l’attività delle imprese e l’incremento del lavoro, ma in realtà le cose non stanno così, con il precariato infatti vi è un crollo dei consumi e conseguentemente calano i profitti delle aziende, alimentando inconsapevolmente un circolo vizioso che nuoce al mondo del lavoro in generale e alla società intera senza differenze di ruoli e di classe. Inoltre, come abbiamo visto, il Decreto contempla anche delle misure a sostegno delle imprese, a dimostrazione che non vuole agevolare solo il lavoro dipendente, ma il lavoro nella sua essenza più genuina, il connubio tra le parti che lo compongono. Un’altra considerazione importante è che non serve fare previsioni a lunga scadenza come ha fatto l’INPS, ipotizzando scenari catastrofici da qui a dieci anni, perché il Decreto dignità come ogni altro provvedimento legislativo è suscettibile di cambiamenti e adattamenti migliorativi qualora si rendessero necessari, basta solo sapere aspettare e avere un po’ di buon senso.