Stavo leggendo il capolavoro di Hannah Arendt la banalità del male, un titolo e una delle locuzioni più geniali della storia, coniata dalla Arendt per descrivere le tragedie prodotte da uomini qualunque sotto i regimi autoritari e sanguinari che hanno contraddistinto il ‘900. Il libro è incentrato su una di queste persone qualunque, impersonificata nella persona di Otto Adolf Eichmann, pianificatore dell’organizzazione “logistica” della soluzione finale e processato in Israele nel 1961 dopo essere stato rapito dai servizi segreti israeliani (Mossad) in Argentina, dove si nascondeva con il nome di Ricardo Klement. 

Banalità, ancora più terribile, quando lo stesso sostantivo viene indossato da individui insignificanti, grigi burocrati, tecnici senz’anima che non hanno la grandezza dei demoni, come ben afferma la Arendt, e non li si riconosce tra la folla perché, come Eichmann, se ne stanno più spesso in uno scarno ufficio di regime a compilare carte e ordini che non son “altro” che vite. Ricordiamo che per gli esecutori venne sostituito il termine Befehlsempfänger (colui che porta gli ordini) con Befehlsträger, cioè colui che riceve gli ordini, depositario insindacabile dell'hörerer Sinnesträger, l'essere razionale superiore. Questo ci dà la percezione del perché nessun nazista ammise mai di aver sbagliato ad eseguire quegli ordini.

Questo l’antefatto della cronistoria del processo più importante intentato contro un capo nazista dopo quello collettivo di Norimberga del 1946. Nel processo si giudica un solo uomo, ma ciò che è implicitamente sotto accusa, tanto in tribunale quanto nell’opera della Arendt, è un intero sistema sorretto da un diabolico triumvirato (Himmler-Göring-Goebbels) con al vertice una divinità a cui obbedire senza condizioni (Hitler), ma nel quale sono stati degli omuncoli  mediocri e servili come Eichmann ad essere i veri esecutori della “soluzione finale”.

Leggendo il libro mi sono imbattuto nell’adagio latino Par in Parem Imperium Non Habet. Mi ci soffermai per un attimo, senza sapere il perché. Quella era la massima latina, utilizzata dalla difesa di Eichmann, secondo la quale nessuno Stato può giudicare un altro Stato suo eguale, sulla base di quelle che venivano considerate, appunto, mere azioni di Stato e non crimini.

Ma allora perché continuava a risuonare nella mia mente mentre la leggevo e rileggevo? Forse per la sua altisonante eredità latina? O forse per l’estetica armoniosa del suo endecasillabo. Ma poi ragionandoci, mi rimandava a qualcosa di molto più profondo, qualcosa del nostro contemporaneo, di quella breve parentesi della nostra vita che ciascuno di noi vive come storia. Pensandoci bene, quante volte, negli ultimi anni, abbiamo visto autocrati e dittatori appellarsi a questi principi per continuare a compiere le loro atrocità interne, e dissuadere i governi contrari e l’intimorita comunità internazionale da qualsiasi intromissione e ingerenza? 

Pensiamo alla Cina, alle purghe interne che vanno avanti senza sosta dalla Rivoluzione Culturale degli anni ’60 ad oggi,” all’integrazione” forzata delle minoranze etniche del paese (pena la marginalizzazione sociale ed economica) e di tutte le popolazioni non disponibili a condividere la visione han del mondo. 

Ma pensiamo anche la Russia post-comunista, che dall’avvento di Putin ha conosciuto ondate di epurazione politica, incarcerazioni arbitrarie ed esecuzioni di dissidenti e oppositori politici e di giornalisti (con esecuzioni in strada in pieno giorno e avvelenamenti in territori stranieri). Per non parlare della riduzione progressiva, ma inesorabile, di tutti gli spazi di libertà, fatta passare, mediante una spietata propaganda, come ragion di stato contro cospirazioni straniere miranti a destabilizzare il paese. Stesso repertorio sfoderato nella guerra in Ucraina, con un’opinione pubblica abbruttita da anni di informazione univoca corruzione e miseria.

E il Brasile di Bolsonaro? Dal negazionismo pandemico, al silenzioso sterminio delle minoranze indigene del bacino amazzonico, o con le armi, o con la distruzione della foresta, quest’ultima ha raggiunto i livelli mai visti con il suo governo di destra militarista e affarista. Con Bolsonaro, si è compiuto lo scempio finale di legittimare addirittura i garimpeiros (i cercatori d’oro) ad aprire nuove miniere aurifere in piena foresta vergine e laboratori a cielo aperto per la separazione del metallo dalla pietra con l’impiego massiccio di mercurio e ad usare la forza, sparando se necessario, contro gli sparuti gruppi di irriducibili indios che vi si oppongono. Ma coloro che si rivolgono alla pancia come Bolsonaro (con tutto il carico di odio e paura sociale), lasciano tracce insanabili proprio in quel futuro che negano ontologicamente, rendendo impossibile alle opposizioni vittorie certe per una governabilità. La vittoria di Lula ne è l’esempio lampante. Malgrado la distruzione sociale e ambientale (che in Brasile significa anche economia) attuate da Bolsonaro, un paranoico narcisista ossessionato dalle armi, i brasiliani non si sono espressi chiaramente verso un cambio di regime. Certo, Lula non rappresenta più il nuovo e molti, complice la campagna di diffamazione perpetrata ai suoi danni sull’ombra dei processi di corruzione, non hanno creduto di dover scegliere il mal di testa per curare il mal di pancia. La cosa grave, è che a molte delle classi più marginali  (e non a caso sostenitrici di Lula) non è stato nemmeno consentito di votare.

La lista potrebbe procedere con la svolta autoritaria dell'India di Modi, paese che negli anni '90 veniva considerato la più grande democrazia del mondo.

E che dire delle Filippine dell'ex presidente pistolero Duterte, dove la vendetta di strada è stata assunta come paradigma di buon governo.

Certo, procede tutto a macchia di leopardo e ogni tanto sorgono segnali di speranza (come in Iran) ma la tendenza sembra tracciata.

Poi, altrove, è accaduto l’inimmaginabile: la patria della democrazia liberale, ha visto l’ascesa di un magnate populista e sovranista (Donald Trump) che è stato capace, in soli 4 anni, di avvelenare tutti i pozzi della concertazione civile su cui si basa da sempre la democrazia americana, infragilita, tuttavia, da decenni di campagne militari, crack finanziari, terrorismo internazionale, irrisolte questioni raziali e da avvicendamenti migratori e demografici. Su questo ha costruito una imponente campagna di odio sociale, raziale e di delegittimazione degli avversari elettorali, culminate con il colpo di Stato al Campidoglio. Incredibile che sia riuscito persino ad accusare di colpo di stato, di cui lui stesso è stato artefice e istigatore quel fatidico gennaio di due anni fa, il suo avversario politico, Sleepy Joe, come Trump definiva Biden con disprezzo. E ora si ripresenterà alle elezione, anche se dalle elezioni di midterm sembrano arrivare messaggi meno tragici per i democratici di quel che ci si potesse aspettare. Segnali di un cambiamento dell’opinione pubblica americana, stremata da anni conflitti sociali? Presto per dirlo.

E cosa pensate che canticchierebbero questi regimi, ai quali potremmo aggiungere le democrazie illiberali (odioso ossimoro coniato negli anni ’90), i regimi sovranisti e altre decine di repubbliche fantocce sparse nel mondo?

Canterebbero tutti in coro “Par in parem imperium non habet”, non appena, come del resto si sta già verificando, un qualunque organismo internazionale o paese afflitto da quello strano pallino che si chiama progresso dei diritti civili e umani osasse ricordarglielo loro.  L’altra faccia della stessa medaglia dell’adagio latino è quel…first (metteteci il paese, o meglio scusate, la nazione che volete) che tutti questi sovranisti hanno usato per anni per eludere questioni epocali di medio e lungo termine e nutrire così il tarlo della pancia: american first, british first, les français d’abord, prima gli italiani ecc…

I paesi che ancora non avevano ceduto alle lusinghe populiste e sovraniste (pochi per la verità), sono caduti nel dogma della democrazia vista come sbocco raffinato di qualsiasi evoluzione sociopolitica, una specie di materialismo dialettico marxista in chiave liberale.  

Perché sta accadendo anche in Italia, paese che ha vissuto i tragici effetti delle svolte autoritarie e che per questo dovrebbe aver costruito, come anticorpi di difesa, una serie di organi di terzietà dei poteri, e annuali liturgie commemorative per ricordare ossessivamente i valori della resistenza, della liberazione e della genesi costituzionale?

Io, una risposta me la sono data. Una parte riguarda il governo mondiale, l’altra la politica interna e i cittadini in quanto elettori.

Dal punto di vista macro-culturale, credo che il mondo stia subendo una profonda spaccatura, tra due visioni diverse del mondo, talmente diverse da essere inconciliabili, sono come l’acqua e il fuoco, il giorno e la notte, l’essere o il non essere. Come la Corea del Nord e quella del Sud, che ho scelto come immagine eclatante di due mondi, uno dittatoriale e l'altro democratico, che si costeggiano, si guardano in cagnesco, non si parlano e attendono ognuno la fine dell'altro. 


[Continua parte 2]