L’ing. Riccardo Morandi (Roma 1902-1989) firmò numerosi progetti in Italia e all’estero.
Fu soprattutto il boom economico degli anni 60 ed il successivo ventennio a mettere nelle sue mani commissioni e appalti d'oro, come la realizzazione del viadotto Polcevera a Genova, il ponte Vespucci a Firenze, il viadotto Akragas in Sicilia, il ponte Rafael Urdaneta in Venezuela, la colossale opera definita “sovietica” del Serpentone alla Magliana di Roma, agglomerato urbano in cemento armato che si estende per una lunghezza di sette chilometri di triste periferia.
Riccardo Morandi fu infatti pioniere del cemento armato come materiale prediletto nella realizzazione dei suoi progetti e, nell’ambito del razionalismo italiano in senso stilistico, all'epoca non mise mai in discussione il naturale degrado del calcestruzzo. Al contrario l’ingegnere ne rivendicava la leggerezza, l’economicità, la duttilità unito al ferro per il designer di linee, pilastri di sostegno, archi, facilità di inserimento nei contesti naturali e cittadini.
In barba alla genesi delle opere, veleggiò con successo una linea di costruzione in voga nella prima repubblica, appoggiata da ministeri centrali e amministrazioni locali, applaudita dalle Università che negli anni 80 gli consegnarono ben due lauree ad honorem.
Fatto sta che molte delle sue opere sono collassate. Il ponte venezuelano (1970) andò distrutto solo dopo due anni dalla fine dei lavori, la storia narra che una petroliera si scontrò con un pilastro di cemento e l’intera struttura crollò nelle acque del lago Maracaibo. Un’inchiesta è stata aperta anche dalla procura agrigentina per il viadotto che collega Agrigento a Porto Empedocle, una struttura di 4 km anch’essa realizzata nel 1970, al momento rimane chiusa e non percorribile per il degrado strutturale dei piloni, la globale armatura in ferro scoperta ed il totale sbriciolamento del cemento...
Il terzo ponte gemello fu per l’appunto il viadotto Polcevera (dall’omonimo torrente attraversato): ultimato nel 1967, fu innalzato su piloni in cemento armato che raggiungevano i 90 metri di altezza su una superficie di 8,7 km, fra i quartieri abitati di Sampierdarena e Cornigliano (via Fillak e Via Porro oggi evacuate), tagliando i cornicioni dei palazzi esistenti ed incastonando le travi portanti con gli stessi edifici civili. Non a caso, insieme al serpentone della periferia di Roma, fu chiamato "ecomostro". Lo scopo primario del progetto era di collegare la penisola con la Francia e la Spagna, quello secondario di essere il principale asse stradale fra Genova e la riviera del ponente, compreso il raccordo dell’aeroporto.
Chi percorreva giornalmente il ponte, mi riferisco ai pendolari, testimonia la perenne sensazione di pericolo, un piano stradale inclinato e mai del tutto orizzontale, i giunti tremolanti, le oscillazioni a causa del vento e la terribile angoscia che trasmettevano le reti sospese per riparare gli automobilisti dai calcinacci; i lavori erano sempre in corso.
L’intervista a Renzo Piano e la sua accorata analisi.
Lo hanno avvisato della tragedia mentre era in riunione a Ginevra per un progetto per il Cern, così risponde il noto architetto genovese: ”ll crollo del ponte non è una fatalità: è avvenuto poiché in Italia non si fa "diagnosi". Non conosciamo lo stato di salute delle nostre costruzioni, però produciamo ed esportiamo strumenti d’avanguardia. Perché?”
Le risposte all’interrogativo possono essere tante e molto articolate, qui solo un dato certo, matematico, trasmesso dall’ONU in occasione della classifica redatta sulla qualità della vita nei paesi del mondo: l’Italia, quella della prima e della seconda repubblica, è al 47esimo posto a causa della corruzione interna, fonte inestirpabile di tragedie e di perenne fragilità sociale.