Friedrich von Schiller, nell’atto III de La pulzella d'Orléans del 1801, faceva dire ad uno dei personaggi della tragedia: «Contro la stupidità anche gli dèi lottano invano».

L’autore di Marbach am Neckar era stato un attento osservatore dei sommovimenti di massa e del clima politico del suo tempo di cui rimangono molte testimonianze nelle sue opere. La conclusione del poeta-filosofo è allora che la forza più irresistibile e devastante nella storia non sono gli eserciti, la finanza o la politica, ma la pura e semplice stupidità umana.

Un tema che, centotrentasei anni dopo, riprenderà un altro grande autore di lingua tedesca come Robert Musil quando, l’anno prima dell’annessione dell’Austria da parte dei nazisti, espresse magistralmente la sua perplessità di fronte agli eventi con due conferenze dal titolo Sulla Stupidità interpretandola come forza storica.

Cos’è allora accaduto il 25 settembre 2022? Gli italiani hanno forse perso la testa? Sono diventati sordi e ciechi? Oppure hanno smarrito la memoria in massa? Cosa hanno fatto per la più importante elezione della storia repubblicana? Presto a dirsi: non hanno fatto nulla e si è votato come se nulla fosse ed il termine «nulla» non viene qui utilizzato a caso. 

A seggi chiusi risulta che il partitino del comico genovese è diventato il principale partito del meridione seguendo, coerentemente, una lunga tradizione politica con cui si prende la gente per i fondelli o per fame e così il primo guitto che restituisce un obolo dal bottino sottratto viene acclamato come un benefattore e non per quel che davvero è – il giochino è vecchio e ben collaudato, quantomeno dall’unificazione nel 1861.

Già all’epoca, tra i tanti modelli possibili, la politica del regno sabaudo decise che il modello sociopolitico di un’Italia a due velocità era il modo per far andare il volano del Paese: gli investimenti industriali venivano fatti al Nord ed il Sud, come dall’epoca romana, forniva agricoltura, pesca e manodopera, mentre le eccedenze umane si facevano emigrare o si smaltivano tra la guerra e la fame. Un meccanismo semplice e brutale per una classe dominante altrettale.

Come al solito, già dalla sera delle elezioni del 25 settembre scorso, i vari «esperti» mediatici, da una parte e dall’altra, hanno iniziato a tessere le loro analisi post factum.

Al di là dei grandi discorsi, il risultato elettorale lascia emergere due elementi di cui, curiosamente, non si discute da nessuna parte: ossia il deprimente stato intellettuale della nostra epoca determinato dall’apparato socio-politico che si esprime attraverso l’industria culturale e l’annientamento del cittadino come soggetto politico.

All’interno di un determinato sistema ideologico esiste una sola versione della realtà e questa viene edificata ed offerta dai palinsesti dell’industria culturale, per questo, in casa dell’impiccato, si può parlare di tutto ma non di corda. La realtà del mondo può infatti essere obliterata solo quando vi sono i mezzi e gli strumenti organizzativi per farlo e l’industria culturale ed il nichilismo sono ormai la mano destra e sinistra dei poteri dominanti che hanno adesso la possibilità di gestire il senso del reale di coloro che opprimono portandoli sostanzialmente dove vogliono. 

Le elezioni del 25 settembre non sono state vinte dai partiti o da chi per loro, ma dall’industria culturale e dal nichilismo dilagante. Se proprio vogliamo parlare di vincitori, possiamo allora dire che hanno vinto coloro sorretti dalle vele dell’industria culturale gonfiate e sospinte dai venti del nichilismo ormai imperante.

Nichilismo è, però, un termine sfuggente e difficile che, dal 1799, ha significato molte cose, anche se la sua storia concettuale è ben più antica dell’uso del termine e possiamo, come molti altri mali, far risalire anche questo alla Sofistica. Chi è che, nell’antichità, ha assestato un primo brutto colpo alla razionalità condivisa? Non sono forse Protagora di Abdera e Gorgia di Leontini, il primo propagando un relativismo-scettico in cui non può più esistere una generalità di giudizio condivisa ed il secondo perorando la causa dell’assoluta incomunicabilità e inconoscibilità, a prendere di petto la validità della realtà condivisa e, dunque, della possibilità di un accordo giusto e democratico su questa?

Se Protagora afferma che il soggetto «è misura (μέτρον) di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono, e di quelle che non sono per ciò che non sono», Gorgia utilizzerà la tripletta secondo cui: «nulla esiste; se anche qualcosa esiste, non è conoscibile dall’uomo; se anche è conoscibile, è incomunicabile ad altri». Una tesi sull’incomunicabilità che, curiosamente, ritroveremo, ancora millenni dopo, in Ludwig Wittgenstein, il capostipite della filosofia analitica moderna. 

Se al problema epistemico-morale introdotto dai Sofisti si aggiunge, poi, quello esistenziale che si radicalizza nella modernità si vede emergere la potenza di una nullificazione del mondo e della vita che diventa forza agente. È lo svuotamento dei contenuti significanti della socialità che ha determinato l’imporsi del nichilismo, oppure è quest’ultimo ad aver determinato l’atrofia etica ed intellettuale che incombe sull’epoca contemporanea?

Nel XIX sec., poi, persino la coscienza diventa una malattia: «sono fermamente convinto che non solo la troppa coscienza, ma anche qualunque coscienza sia una malattia» (Memorie del sottosuolo, 1864), un passaggio concettuale che Kafka coglierà, nel secolo successivo, descrivendo l’annientamento del soggetto umano che ancora si pone delle domande di senso in un mondo che ne è svuotato, che ricerca la giustizia e prova a districarsi nella trama delle accuse che gli rivolgono ricercando una razionalità che sia ancora etica. Il Novecento, secolo dei più grandi massacri della storia umana, rifugge una coscienza che associ razionalità ed etica ed in questo rigetto abita lo spettro del nichilismo. 

Il voto del 25 settembre mette insieme tutti gli elementi di un fondamentale sfaldamento della razionalità tanto politica quanto sociale la quale ha una conseguenza diretta sul cittadino che diventa incapace persino di ricordare quello che tale classe politica gli ha imposto e gli farà ancora subire.

Del resto, la creazione di simulacri pseudoculturali depotenzia qualunque visione alternativa a quella dominante che viene, per l’appunto, subita passivamente. I contenuti generati dall’industria culturale, anche se spacciati per elevatissima cultura, somigliano ad una tigre in gabbia, castrata e privata di zanne e artigli, bella forse a vedersi, ma priva di alcuna forza.

La sostituzione ormai universale della cultura autentica con un mercato di credenziali e prebende, oltre ad insediare la pseudocultura nelle sedi preposte al pensiero, determina una passività morale e intellettuale che rende impossibile anche immaginare possibilità diverse dalla tigre ingabbiata. In questo itinerarium mentis in nihilum vengono a mancare gli strumenti per poter dire che il mondo potrebbe andare altrimenti, che possono esserci alternative e, per questo, si continua stolidamente a votare il vecchio che avanza.