La tratta delle nigeriane: 6000 km di olocausto da cancellare. Il rapporto di Human Right Watch con 76 interviste
Human Right Watch, organizzazione umanitaria per i diritti umani con sede principale a New York, lo scorso agosto pubblica 76 interviste a giovani donne nigeriane finite nella rete dei trafficanti come fossero "carne da macello".
L'organizzazione criminale sembra avere regole precise basate sull'intimidazione e su riti vudù, dove la magia nera del tribalismo serve a soggiogare le vittime, ad incatenarle psicologicamente, per lo più giovani donne reclutate presso famiglie povere con gravi problemi di sostentamento e sopravvivenza.
L'organizzazione criminale, strutturata in maniera capillare per 6000 km, dalla Nigeria fino all'Italia, si avvale non solo di uomini ma anche di donne : promettono lavori domestici e salario, mentre di fatto viene offerta la strada.
Anche se sorge qualche dubbio sull'eccessiva ingenuità e credulità di queste ragazze reclutate tramite amici o familiari per quanto riguarda la non consapevolezza del futuro, non è comunque ammissibile il trattamento e l'olocausto subito. Tali sofferenze e patimenti, sia nel caso dell'agognato sbarco in Europa, che di un possibile rientro nei luoghi di provenienza, lasceranno ferite insanabili sul piano psichiatrico: infatti è proprio questo aspetto che maggiormente deve temere le collettività. Per ovvie ragioni.
Di seguito alcune interviste di Human Right Watch estratte dalle 76 pubblicate nel rapporto, terrificanti, estreme, inaccettabili nei moderni anni 2000, come continua ad essere inaccettabile, sia da un punto di vista politico che di azione umanitaria, il mancato intervento degli USA che, ricordiamo, dalle basi militari di Comiso e Sigonella in Sicilia, controllano tutto il Mediterraneo con sofisticate apparecchiature di alta tecnologia, consapevoli nel dettaglio di ogni traffico e movimento.
Viaggi strazianti e prigionia
Juliana P., 23 anni, fu trafficata in Libia nel 2015. Racconta di essere rimasta in balia del mare e, più tardi, prigioniera in Libia.Rimanemmo in mare per cinque giorni. Non c’era più cibo. Non sapevamo dove fossimo. Un uomo morì, lo gettammo in mare. La gente piangeva, diceva che non sapeva che avremmo sofferto così tanto. Incontrammo un gruppo di arabi; ci presero sulla loro barca e ci portarono in prigione. Ci rimanemmo per sei mesi. Il cibo che ci davano in prigione era pane, tè chai, spaghetti e acqua. L’acqua era molto salata; ci faceva esfoliare la pelle. Piangevamo e ci picchiavano.
Schiavitù sessuale, prostituzione e lavori forzati
Joy P. ha raccontato di essere stata vittima di tratta nel 2017, all’età di dodici anni, da casa sua nello stato Anabra a quello di Lagos da parte di una donna che la ingannò dicendo che l’avrebbe aiutata con gli studi mentre si fosse presa cura dei suoi figli. La donna forzò Joy a pulire e cucinare per due mesi senza paga, e poi la portò in un bordello costringendola a prostituirsi: Un giorno (…) mi portò in un albergo. Lì ritrovai una delle ragazze che avevo conosciuto nello stato di Anambra. La donna andò dal proprietario dell’albergo e disse “Ho portato un’altra ragazza.” L’uomo disse che ero troppo giovane per stare lì. Mi riportò a casa e comprò delle medicine per farmi ingrassare. Dopo tre settimane mi ci riportò, ma il proprietario non mi accettò. Allora mi portò in un altro hotel, e lì mi presero. Io le dissi, “Non è per questo che mi hai portato qui.” Rispose che dovevo ripagarla dei soldi che ci vollero per portarmi in Lagos, prima di poter tornare.
Comprò dei preservativi e me li diede dicendo che degli uomini sarebbero venuti da me. Mi diede una stanza. Diversi uomini vennero a letto con me. Persi il conto di quanti. Scappai dopo due giorni. Mi ritrovarono e mi riportarono a casa della donna. Mi picchiò e disse che dovevo pagarla. Mi diede qualcosa da bere e mi fece promettere che non sarei scappata di nuovo. Mi riportò al primo albergo e mi accettarono. Fu doloroso. Piangevo sempre.
Uma K., 32 anni, dice di essere stata portata in Libia nel 2013 da un uomo che viveva nella sua stessa strada a Benin City. Racconta che una madam teneva lei ed altre ragazze sotto ricatto e le sfruttava sessualmente. La madam obbligò Uma ad abortire più volte, facendola pagare per le operazioni, e obbligandola a lavorare quasi immediatamente subito dopo:Stavo male. Mi disse, “Sei un’infermiera, puoi curarti da sola.” Mi picchiava. Si mangiava una volta al giorno. La sveglia era alle 4 del mattino. Mi picchiava, insieme al marito, per svegliarmi. Gli uomini venivano a letto con noi senza preservativo. Sono rimasta incinta quattro volte. Era lei stessa a occuparsi dell’operazione per noi (…) se pagava l’infermiera 40 dinar, ci chiedeva il doppio. Il giorno dopo, già si tornava a lavorare.
Georgina K., 13 anni, è del Benin, e ha raccontato di essere stata in Nigeria per quattro anni al momento dell’intervista con Human Rights Watch nel 2017. Racconta che la madre non aveva soldi per mandarla a scuola, e sua zia si offrì di intervenire:Mi portò qui [in Nigeria] per lavorare e pagarmi una scuola professionale. Mi portò da una persona che vende cibo. Mi facevano vendere amala [cibo nigeriano fatto con farina di manioca o patata dolce]. Non mi davano da mangiare. Al mattino non mangiavo niente; mi dicevano che avrei mangiato al ritorno, intorno alle 3 p.m. Facevo anche lavori domestici. Mi picchiavano e mi abusavano verbalmente. Mi diceva che non lavoravo bene. Lavoravo in continuazione. Pagarono mia zia, che disse avrebbe mandato i soldi ai miei genitori. Non sono sicura che glieli abbia mandati. Stavo male e non mi curavano.
La vita in Nigeria dopo la tratta
Uma K. ha descritto la sua vita in Nigeria dopo essere scappata dallo sfruttamento sessuale in Libia:A volte i miei amici mi prendono in giro. Una collega [infermiera] mi ha preso in giro su Facebook dicendo che ero andata a prostituirmi in Libia…. A volte piango. Credo che alcuni dei miei parenti si vergognino di me, perché quando siamo con altre persone non vogliono parlarmi. A volte sento che la gente si schernisca di me persino quando cammino per strada. Non ho cercato aiuto perché mi vergogno; non so cosa mi aspetta. Certa gente potrebbe prenderti in giro e non aiutarti.
Joan A., 13 anni, ha detto che a volte non può permettersi il cibo:Vivo da sola; mia zia mi ha dato la casa dove vivo (…) compra lei il cibo. A volte la chiesa mi dà del cibo. Altre volte non ho niente da mangiare.
Ad Adaku G., 31 anni, era stato detto da un vicino che poteva aiutarla a trovare lavoro in Francia, ma dopo un viaggio straziante attraverso il deserto del Sahara rimase intrappolata in Libia, dove una madam la obbligò a prostituirsi. Ancora soffre di problemi di salute in seguito al suo calvario:Non godo di buona salute. Sto sempre male (...) un malanno dopo l’altro. La mia famiglia mi ha pagato le cure (…) Ho dolori all’addome inferiore, alla schiena, e non posso chinarmi. Ho dolori alla vita.
Detenzione in rifugi
Ebunoluwa E., 18 anni, superstite alla tratta in un rifugio NAPTIP, ha detto:Da quando sono qui, mangio e dormo. Un pastore viene ogni domenica per farci la predica. Ogni giorno preghiamo. Non ho seguito alcun corso di addestramento professionale. Non mi hanno chiesto cosa voglio fare. Da ieri, sono tre settimane che sono qui. Non ho ancora parlato con mia madre. Sono andata dalla dirigente e le ho detto che voglio dire a mia madre che sono qui. Lei mi chiesto perché non lo abbia detto al JDPC [Justice Development and Peace Caritas Commission], una NGO che è venuta a intervistarci. Il NAPTIP ha il mio telefono. Non ho il mio passaporto. Ho visto che ce l’ha il JDPC. Sono così triste, voglio andare a casa. Non mi piace questo posto; troppe regole. Ci svegliano con una campanella e ci obbligano a pregare. Non mi hanno detto quando andrò a casa (…) È da stamattina che piango.
Gladness K., 24 anni, ha detto di essere stata tenuta in un rifugio del NAPTIP per circa tre settimane, e poi di essere stata trasferita in un altro per una settimana senza informazioni su quando sarebbe tornata a casa:Voglio andare da mia madre (…) In Lagos dicevano che avrei dovuto essere contenta di tornare perché molte persone soffrono e vengono sfruttate. Mi hanno chiesto se volessi imparare a lavorare, e gli ho detto che volevo tornare a casa. Non mi hanno detto quando tornerò; ho chiamato mia madre questo pomeriggio e non sono sicura di quando verrà a prendermi.