Troppo facile parodiare un titolo che ha fatto epoca e una pellicola che ha girato il mondo e incassato anche Oscar; molto meno risulta parlare del suo protagonista, Gian Maria Volontè (1933/1994).
Nato a Milano, cresciuto a Torino, il ragazzo accusa da subito la posizione scomoda del padre, ras fascista condannato per crimini, da cui il futuro attore prenderà le distanze, schierandosi sul fronte politico opposto, a sfiorare l’estremismo.
A differenza di colleghi che praticavano una solidarietà di categoria, come Enrico Maria Salerno, organizzatore del sindacato attori, o Nino Manfredi, che rifuggiva da politicizzazioni ma ammoniva bonariamente sulla scarsa coesione di intenti nel mestiere, e invitava a sostenere le giovani leve, Gian Maria era secco e draconiano, schivo e quasi malmostoso.
Per lui la vita reale e quella professionale non presentavano differenze, agendo parallelamente nelle due realtà. Quando, nei primi anni settanta, organizzò uno sciopero nel settore della recitazione, arrivò a sclerare contro Loretta Goggi che, distante anni luce da ogni forma di coinvolgimenti del genere, rifiutò di dichiararsi attrice, ciò che fino a quel momento aveva fatto.
Volonté andava preso per come era e senza attendersi sorrisi. Il suo viso intrigante pari, forse, per intensità di sguardo, solo a un Giancarlo Giannini o, per indipendenza nelle scelte professionali, a un Vittorio Mezzogiorno, colpì gli spettatori dei cinque continenti già ai tempi di “Per qualche dollaro in più”, seconda opera della trilogia western di Sergio Leone, dove capeggiava una banda di criminali messicani strafatti, affiancato dal fido Chico: quest’ultimo, sorta di personaggio criptogay dell’epoca, efficacemente interpretato da quel Mario Brega che conosceremo a fine carriera, come coatto nei film di Carlo Verdone.
I film di cassetta, nella sua carriera, non sono mancati ( si deve pur campare), ma, diciamo così, portati con eleganza e scelti con avvertenze, compresa la frequentazione di commedie all’italiana.
Naturalmente egli è noto soprattutto per l’impegno civile dei suoi personaggi, al cinema e in televisione, da Enrico Mattei a Carlo Levi, passando per Sacco e Vanzetti (lui era quest’ultimo). Nella vecchia Cuba di Fidel, ricordiamo che veniva spesso passato sui (parchi) schermi.
Cela va sans dire, che al centro della sua magnifica esplicazione resta lui, il “dottore”, dirigente di polizia sfranto dalla separazione tra due “sé ”, quello civile e quello di sbirro, e dalla contaminazione tra due vite che, come ogni dissociazione, difficilmente viene ricomposta, se non con esiti drammatici.
Uomo carismatico e affascinante, naturalmente Volonté evitava accuratamente i paparazzi; si conosce, essenzialmente, la sua storia con la collega Carla Gravina, da cui ebbe una figlia. Politicamente assestato, rifiutò a lungo le tentazioni di candidarsi, ritenendo l’agone politico una manfrina di basso livello e la militanza istituzionale roba per passivi burocrati, salvo cedere un paio di volte: la prima da consigliere regionale poi dimissionario, la seconda alle politiche, senza essere eletto.
Nel 1994 l’attore fu colto da un fatale infarto mentre girava “ Lo sguardo di Ulisse”, megaproduzione europea su un ideale viaggio artistico/ politico nei Balcani, nel cui cast era infilato, unico americano, l’allora fungibile Harvey Keitel; il film continuò, sostituendo Volonté con il bergmaniano Erland Josephson e Gian Maria da allora riposa a La Maddalena.
Mentre ricordiamo professionisti di questa levatura, non troppo adorati nemmeno dall’intellighenzia iper progressista, in quanto fin troppo scomodi e poco malleabili, senza essere gli eroi che qualcuno vorrebbe sempre sacrificare su qualche altare, ci piace pensare che, oggi, persone di tale spessore si preoccuperebbero della fine di una categoria, quella attoriale: senza interventi e idee nuove, essa scomparirà girando corti nel salotto di casa. L' ideale invocato da Gian Maria, non compare all’orizzonte.