"... Ma la vita degli imprenditori nella Chiesa non è stata sempre facile. Le parole dure che Gesù usa nei confronti dei ricchi e delle ricchezze, quelle sul cammello e la cruna dell’ago (cfr Mt 19,23-24), sono state a volte estese troppo velocemente ad ogni imprenditore e ad ogni mercante, assimilati a quei venditori che Gesù scacciò dal tempio (cfr Mt 21,12-13). In realtà, si può essere mercante, imprenditore, ed essere seguace di Cristo, abitante del suo Regno. La domanda allora diventa: quali sono le condizioni perché un imprenditore possa entrare nel Regno dei cieli? E mi permetto di indicarne alcune. Non è facile…La prima è la condivisione. La ricchezza, da una parte, aiuta molto nella vita; ma è anche vero che spesso la complica: non solo perché può diventare un idolo e un padrone spietato che si prende giorno dopo giorno tutta la vita. La complica anche perché la ricchezza chiama a responsabilità: una volta che possiedo dei beni, su di me grava la responsabilità di farli fruttare, di non disperderli, di usarli per il bene comune. Poi la ricchezza crea attorno a sé invidia, maldicenza, non di rado violenza e cattiveria. Gesù ci dice che è molto difficile per un ricco entrare nel Regno di Dio. Difficile, si, ma non impossibile (cfr Mt 19,26). E infatti sappiamo di persone benestanti che facevano parte della prima comunità di Gesù, ad esempio Zaccheo di Gerico, Giuseppe di Arimatea, o alcune donne che sostenevano gli apostoli con i loro beni. Nelle prime comunità esistevano donne e uomini non poveri; e nella Chiesa ci sono sempre state persone benestanti che hanno seguito il Vangelo in modo esemplare: tra questi anche imprenditori, banchieri, economisti, come ad esempio i Beati Giuseppe Toniolo e Giuseppe Tovini. Per entrare nel Regno dei cieli, non a tutti è chiesto di spogliarsi come il mercante Francesco d’Assisi; ad alcuni che possiedono ricchezze è chiesto di condividerle. La condivisione è un altro nome della povertà evangelica. E infatti l’altra grande immagine economica che troviamo nel Nuovo Testamento è la comunione dei beni narrata dagli Atti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola […], fra loro tutto era comune […]. Nessuno tra loro era bisognoso» (4,32-34).Come vivere oggi questo spirito evangelico di condivisione? Le forme sono diverse, e ogni imprenditore può trovare la propria, secondo la sua personalità e la sua creatività. Una forma di condivisione è la filantropia, cioè donare alla comunità, in vari modi. E qui voglio ringraziarvi per il vostro sostegno concreto al popolo ucraino, specialmente ai bambini sfollati, perché possano andare a scuola; grazie! Ma molto importante è quella modalità che nel mondo moderno e nelle democrazie sono le tasse e le imposte, una forma di condivisione spesso non capita. Il patto fiscale è il cuore del patto sociale. Le tasse sono anche una forma di condivisione della ricchezza, così che essa diventa beni comuni, beni pubblici: scuola, sanità, diritti, cura, scienza, cultura, patrimonio. Certo, le tasse devono essere giuste, eque, fissate in base alla capacità contributiva di ciascuno, come recita la Costituzione italiana (cfr art. 53). Il sistema e l’amministrazione fiscale devono essere efficienti e non corrotti. Ma non bisogna considerare le tasse come un’usurpazione. Esse sono un’alta forma di condivisione di beni, sono il cuore del patto sociale.Un’altra via di condivisione è la creazione di lavoro, lavoro per tutti, in particolare per i giovani. I giovani hanno bisogno della vostra fiducia, e voi avete bisogno dei giovani, perché le imprese senza giovani perdono innovazione, energia, entusiasmo. Da sempre il lavoro è una forma di comunione di ricchezza: assumendo persone voi state già distribuendo i vostri beni, state già creando ricchezza condivisa. Ogni nuovo posto di lavoro creato è una fetta di ricchezza condivisa in modo dinamico. Sta anche qui la centralità del lavoro nell’economia e la sua grande dignità. Oggi la tecnica rischia di farci dimenticare questa grande verità, ma se il nuovo capitalismo creerà ricchezza senza più creare lavoro, va in crisi questa grande funzione buona della ricchezza. E parlando dei giovani: io, quando incontro i governanti, in tanti mi dicono: “Il problema del mio Paese è che i giovani vanno fuori, perché non hanno possibilità”. Creare il lavoro è una sfida e alcuni Paesi sono in crisi per questa mancanza. Io vi chiedo questo favore: che qui, in questo Paese, grazie alla vostra iniziativa, al vostro coraggio, ci siano posti di lavoro, si creino soprattutto per i giovani.Tuttavia, il problema del lavoro non può risolversi se resta ancorato nei confini del solo mercato del lavoro: è il modello di ordine sociale da mettere in discussione. Quale modello di ordine sociale? E qui si tocca la questione della denatalità. La denatalità, combinata con il rapido invecchiamento della popolazione, sta aggravando la situazione per gli imprenditori, ma anche per l’economia in generale: diminuisce l’offerta dei lavoratori e aumenta la spesa pensionistica a carico della finanza pubblica. È urgente sostenere nei fatti le famiglie e la natalità. Su questo dobbiamo lavorare, per uscire il più presto possibile dall’inverno demografico nel quale vive l’Italia e anche altri Paesi. È un brutto inverno demografico, che va contro di noi e ci impedisce questa capacità di crescere. Oggi fare i figli è una questione, io direi, patriottica, anche per portare il Paese avanti.Sempre a proposito della natalità: alle volte, una donna che è impiegata qui o lavora là, ha paura a rimanere incinta, perché c’è una realtà - non dico tra voi - ma c’è una realtà che appena si incomincia a vedere la pancia, la cacciano via. “No, no, tu non puoi rimanere incinta”. Per favore, questo è un problema delle donne lavoratrici: studiatelo, vedete come fare affinché una donna incinta possa andare avanti, sia con il figlio che aspetta e sia con il lavoro. E sempre a proposito di lavoro, c’è un altro tema da evidenziare. L’Italia ha una forte vocazione comunitaria e territoriale: il lavoro è stato sempre considerato all’interno di un patto sociale più ampio, dove l’impresa è parte integrante della comunità. Il territorio vive dell’impresa e l’impresa trae linfa dalle risorse di prossimità, contribuendo in modo sostanziale al benessere dei luoghi in cui è collocata. A questo proposito, va sottolineato il ruolo positivo che giocano le aziende sulla realtà dell’immigrazione, favorendo l’integrazione costruttiva e valorizzando capacità indispensabili per la sopravvivenza dell’impresa nell’attuale contesto. Nello stesso tempo occorre ribadire con forza il “no” ad ogni forma di sfruttamento delle persone e di negligenza nella loro sicurezza. Il problema dei migranti: il migrante va accolto, accompagnato, sostenuto e integrato, e il modo di integrarlo è il lavoro. Ma se il migrante è respinto o semplicemente usato come un bracciante senza diritti, ciò è un’ingiustizia grande e anche fa male al proprio Paese.Mi piace anche ricordare che l’imprenditore stesso è un lavoratore. E questo è bello eh! Non vive di rendita; il vero imprenditore vive di lavoro, vive lavorando, e resta imprenditore finché lavora. Il buon imprenditore conosce i lavoratori perché conosce il lavoro. Molti di voi sono imprenditori artigiani, che condividono la stessa fatica e bellezza quotidiana dei dipendenti. Una delle gravi crisi del nostro tempo è la perdita di contatto degli imprenditori col lavoro: crescendo, diventando grandi, la vita trascorre in uffici, riunioni, viaggi, convegni, e non si frequentano più le officine e le fabbriche. Si dimentica “l’odore” del lavoro. È brutto. È come succede a noi preti e vescovi, quando dimentichiamo l’odore delle pecore, non siamo più pastori, siamo funzionari. Si dimentica l’odore del lavoro, non si riconoscono più i prodotti ad occhi chiusi toccandoli; e quando un imprenditore non tocca più i suoi prodotti, perde contatto con la vita della sua impresa, e spesso inizia anche il suo declino economico. Il contatto, la vicinanza, che è lo stile di Dio: essere vicino.Creare lavoro poi genera una certa uguaglianza nelle vostre imprese e nella società. È vero che nelle imprese esiste la gerarchia, è vero che esistono funzioni e salari diversi, ma i salari non devono essere troppo diversi. Oggi la quota di valore che va al lavoro è troppo piccola, soprattutto se la confrontiamo con quella che va alle rendite finanziarie e agli stipendi dei top manager. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società. Adriano Olivetti, un vostro grande collega del secolo scorso, aveva stabilito un limite alla distanza tra gli stipendi più alti e quelli più bassi, perché sapeva che quando i salari e gli stipendi sono troppo diversi si perde nella comunità aziendale il senso di appartenenza a un destino comune, non si crea empatia e solidarietà tra tutti; e così, di fronte a una crisi, la comunità di lavoro non risponde come potrebbe rispondere, con gravi conseguenze per tutti. Il valore che voi create dipende da tutti e da ciascuno: dipende anche dalla vostra creatività, dal talento e dall’innovazione, dipende anche dalla cooperazione di tutti, dal lavoro quotidiano di tutti. Perché se è vero che ogni lavoratore dipende dai suoi imprenditori e dirigenti, è anche vero che l’imprenditore dipende dai suoi lavoratori, dalla loro creatività, dal loro cuore e dalla loro anima: possiamo dire che dipende dal loro “capitale” spirituale, dei lavoratori.Cari amici, le grandi sfide della nostra società non si potranno vincere senza buoni imprenditori, e questo è vero. Vi incoraggio a sentire l’urgenza del nostro tempo, ad essere protagonisti di questo cambiamento d’epoca. Con la vostra creatività e innovazione potete dar vita a un sistema economico diverso, dove la salvaguardia dell’ambiente sia un obiettivo diretto e immediato della vostra azione economica. Senza nuovi imprenditori la terra non reggerà l’impatto del capitalismo, e lasceremo alle prossime generazioni un pianeta troppo ferito, forse invivibile. Quanto fatto finora non basta: per favore aiutiamoci insieme a fare di più".

Questo è quanto papa Francesco ha sbattuto in faccia al presidente di Confindustria, Carlo Bonomi e ai suoi associati che lunedì sono stati ricevuti in udienza nell'Aula Paolo VI.

Lo stesso Bonomi ha introdotto così l'incontro in Vaticano: "Siamo qui oggi per un evento straordinario: l’Udienza del Santo Padre all'Assemblea Confindustria 2022.”

"Desideriamo offrire il contributo e la riflessione della comunità delle imprese a quella impegnativa definizione di lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale che ha dato il Santo Padre. Per la nostra Italia oggi più che mai, sentiamo il dovere di offrire il nostro contributo centrato sulla definizione condivisa di un “lavoro degno”. Se ci si dimentica questo fondamento, le leggi dell’economia tradiscono il loro più intimo significato e valore."

Bonomi si è però dimenticato di ricordare il sostegno al Jobs Act, al lavoro a tempo determinato, alle delocalizzazioni... a cui vanno aggiunti i ricatti sindacali e gli stipendi che sono i più bassi d'Europa. E che dire poi delle regalie che vengono annualmente chieste al governo e che in gran parte vengono utilizzate per migliorare i bilanci delle grandi aziende quotate in borsa, in modo da poter distribuire lauti dividendi ai principali azionisti? 

Bonomi ha dimenticato di ricordare queste cose, ma non di dire che

"Confindustria continuerà a volere e a sognare un Paese unito. Un Paese in cui il verbo prioritario non è prendere, ma è dare: dare lavoro; dare futuro; dare dignità; dare libertà. Non siamo quelli che vincono sempre, ma siamo quelli che non si arrendono mai".

Ma bugie ed ipocrisia non sono peccati che il Papa aveva più di altri condannato?