A firmare il j’accuse contro Karol Wojtyla è stato il New York Times, che ha fatto derivare tutti i problemi della chiesa cilena dal cambiamento imposto negli anni Novanta dalla curia guidata dal Papa polacco. Giovanni Paolo II, ha scritto Patricio Fernández, ha voluto sostituire una gerarchia vicina alla Teologia della liberazione con presuli conservatori – “elitisti e distanti dal loro gregge” – che non sarebbero stati in grado di accompagnare l’ingresso del paese nella contemporaneità e nella democrazia dopo la dittatura di Augusto Pinochet.


Concetto non troppo dissimile da quello firmato dal teologo gesuita Jorge Costadoat: “Nel corso degli anni 60 e 70, Paolo VI aveva nominato in Cile una generazione di vescovi eccezionali. Giovanni Paolo II, a partire dagli anni Ottanta, in Cile e nel resto dell’America latina nominò vescovi con poca libertà di interpretare la dottrina della chiesa, dottrina che, in casi come la Veritatis splendor, significò un regresso; sono stati uomini senza i lumi della generazione precedente, timorosi, strettamente fedeli al governo del Papa”. Il problema si fa quindi ancora più delicato per il Vaticano: non si tratta solo di valutare i singoli casi di abuso sessuale da parte di membri del clero né di processare un’intera conferenza episcopale. La richiesta finora implicita di media, ecclesiastici e opinione pubblica cilena è di passare al setaccio anche l’operato di un Papa, per di più santo.