A una settimana dalla pubblicazione della prima mappa nazionale della contaminazione da PFAS (sostanze poli- e per-fluoroalchiliche) realizzata da Greenpeace Italia, l'organizzazione ambientalista plaude alle prime risposte istituzionali. Regioni come l'Umbria e città come Arezzo, Ancona e Caserta hanno annunciato piani di monitoraggio costante nelle acque potabili, impegnandosi a rendere pubblici i dati. Un passo positivo, secondo Greenpeace, ma insufficiente di fronte a un'emergenza che richiede interventi radicali.
Tra settembre e ottobre 2024, nell'ambito della campagna “Acque senza veleni”, Greenpeace ha analizzato l'acqua potabile in 235 città italiane. I risultati, elaborati da un laboratorio certificato, rivelano che il 79% dei campioni contiene PFAS, composti chimici persistenti legati a gravi rischi per la salute. Le sostanze più rilevate sono il PFOA (47% dei casi), classificato come cancerogeno, il TFA (40%), un composto a catena ultracorta, e il PFOS (22%), potenziale cancerogeno. Numeri allarmanti, soprattutto se confrontati con i limiti stringenti adottati da Paesi come Stati Uniti e Danimarca, dove anche poche decine di nanogrammi per litro sono considerati pericolosi.
Arezzo, in base alle analisi di Greenpeace, è emersa come la città con la più alta concentrazione totale di PFAS. Tuttavia, l'ente gestore locale ha recentemente effettuato test che escludono la presenza di questi inquinanti, anche in tracce. Greenpeace, che a novembre aveva già segnalato i dati critici alle autorità (senza risposta dal Comune), invita a un monitoraggio continuo e condiviso: «La cittadinanza ha diritto a informazioni chiare e acqua sicura», sottolinea l'organizzazione, offrendo collaborazione per controlli congiunti.
In Italia non esiste ancora una normativa che vieti produzione e uso dei PFAS, nonostante i danni accertati per la salute umana (cancro, disturbi ormonali, impatti sul sistema immunitario). Una lacuna denunciata anche da EurEau, la Federazione Europea delle Associazioni idriche, che pochi giorni prima del rapporto Greenpeace ha sollecitato la Commissione UE a bandire questi composti. «L'inerzia significa costi crescenti: servono tecnologie costose per rimuoverli, mentre prevenire è l'unica via sostenibile», avverte EurEau, chiedendo l'applicazione rigorosa del principio “chi inquina paga”.
Se a livello locale si moltiplicano i piani di controllo, Greenpeace condanna l'immobilismo del governo Meloni. «Nonostante le prove sui rischi e la contaminazione diffusa, l'esecutivo ignora l'emergenza, fallendo nella protezione di salute pubblica e ambiente», afferma Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. «Garantire acqua senza PFAS significa tutelare la salute, ridurre l'inquinamento da plastica e contrastare la sfiducia nel rubinetto, ancora alta per un terzo degli italiani (dati ISTAT)».
Oltre ai benefici sanitari, eliminare i PFAS avrebbe ricadute positive sulla lotta alla crisi climatica: meno emissioni legate alla produzione di bottiglie di plastica e più tutela di un bene comune sempre più scarso. «Serve una legge che bandisca queste sostanze e impegni chi le ha rilasciate a bonificare. Il governo rompa il silenzio: il diritto all'acqua pulita non è negoziabile», conclude Ungherese.
Mentre l'Europa discute divieti ambiziosi, l'Italia rischia di restare indietro. Senza azioni immediate, il prezzo da pagare sarà sempre più alto, e non solo in termini economici.