Lo strappo tra Mario Draghi e Giuseppe Conte è arrivato. I pentastellati non hanno votato la fiducia sul Decreto Aiuti e il Premier, in seguito a quello che ha definito essere un “fatto molto significativo dal punto di vista politico”, ha rassegnato le dimissioni al Presidente Mattarella. Dimissioni che il Presidente della Repubblica ha respinto invitando il Premier a riferire in Parlamento.
Draghi, in realtà, non è stato sfiduciato e il Decreto Aiuti è stato approvato in Senato con 172 voti favorevoli. Tenuto conto che, senza l’appoggio dei Cinque Stelle, la maggioranza a Palazzo Madama conta 204 senatori a fronte di una maggioranza assoluta pari a 158 e alla Camera conta 456 deputati a fronte di una maggioranza assoluta di 316, il Governo Draghi avrebbe i numeri per continuare a governare.
La politica, si dice spesso, è fatta di numeri. Ma è vero altrettanto che solo i più miopi ne farebbero una questione esclusivamente aritmetica.
A questo proposito, fa riflettere che una figura cosiddetta tecnica ponga un problema politico.
Mario Draghi, il Premier tecnico per eccellenza chiamato a guidare un Governo di salute pubblica, pone un problema di natura politica.
“Le votazioni di oggi in Parlamento sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico.
La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo”.
Sullo sfondo, forse, le elezioni anticipate per una legislatura che avrebbe visto la scadenza naturale il prossimo marzo.
Ma i partiti sarebbero pronti?
GIUSEPPE CONTE E IL MOVIMENTO CINQUE STELLE
Le elezioni del 2018 definirono una geometria politica secondo la quale una qualsiasi maggioranza sarebbe stata certamente impossibile senza il sostegno dei grillini. La scissione voluta da Di Maio ha ridisegnato una nuova geometria nella quale, invece, una maggioranza senza i pentastellati è possibile. Un dato politico non di poco conto.
La scissione e il calo vertiginoso dei consensi hanno portato il Movimento a necessitare di una nuova strategia di posizionamento. La scelta per la quale si è optato, evidentemente, è il ripristino della spinta “dibattistiana” a scapito del fronte filo-governativo. Ma Conte non è Di Battista e il 2022 non è più il 2013.
Probabilmente lo stesso Conte non aveva previsto le dimissioni di Draghi, immaginando piuttosto un compromesso sul termovalorizzatore a Roma che gli consentisse di portare in dote alla sua base un risultato positivo.
Conte, probabilmente, avrebbe voluto ritagliare al Movimento il ruolo dell’oppositore interno, ma Draghi non è Conte e, a questo punto, neanche più solo un tecnico.
Giuseppe Conte oggi paga il fatto di non avere avuto la forza di capitalizzare il consenso del quale godeva alla fine del suo secondo Governo fondando un partito tutto suo. Ha sposato il credo di un Movimento che sta cercando di plasmare a sua immagine ma nel quale, per sua stessa ammissione, non ha mai avuto radici.
LA LEGA E IL CENTRODESTRA
Fratelli d’Italia ovviamente invoca le elezioni. Non sorprende che l’unico partito di opposizione, per giunta in ascesa nei sondaggi, chieda il voto anticipato.
A fare eco, seppure flebilmente, la Lega. Sondaggi alla mano, il centrodestra è al momento la coalizione più avvantaggiata dal voto anticipato ma Salvini deve fare i conti con una Meloni che gli sottrerebbe la leadership, potenziata dalla caduta di un Governo che la leader di Fratelli d’Italia ha sempre affermato non avere prospettiva.
LETTA E IL CAMPO LARGO
In questo scenario, delicata appare la posizione del Partito Democratico. Giuseppe Conte è l’uomo sul quale Enrico Letta avrebbe voluto investire per la costruzione del cosiddetto “campo largo”, l’alleanza giallo-rossa che alla prova delle urne ha restituito risultati interessanti. Del PD, però, è anche il Sindaco di Roma favorevole al termivalorizzatore osteggiato dai grillini.
Letta e il Partito Democratico devono, dunque, conciliare la posizione favorevole al Draghi bis con l’intenzione di preservare l’alleanza giallo-rossa che appare l’unica carta per contrastare l’avanzata del centrodestra.
IL CENTRO
Il blocco di centro che spazia dal neo movimento di Di Maio a Italia Viva di Renzi e fino ad arrivare ad Azione di Calenda non ha ancora trovato un assetto sul quale costruire un’alleanza elettorale e probabilmente gli ultimi mesi di legislatura potrebbero essere in tal senso determinanti. Non è un caso che in queste ore i più grandi sostenitori del Draghi bis siano Di Maio e Renzi che probabilmente su Draghi Premier punterebbero anche dopo le urne.
PALLA A DRAGHI
Mercoledì la palla passerà a Draghi. Il Premier dovrà decidere se confermare le dimissioni o cedere, in nome della responsabilità, alle richieste di ripensamento avanzate dai leader nostrani ed esteri. A quel punto sarà inevitabile una verifica della maggioranza. Draghi potrebbe mettere Conte e i suoi nelle condizioni di confermare o non confermare formalmente la fiducia al Governo e uscirne, paradossalmente, rafforzato.