Dopo trent’anni dalla strage di via d’Amelio, Michele Santoro dopo aver incontrato il collaboratore di giustizia Avola scrive un libro. Quest’ultimo una volta in libertà, dopo tutti questi anni, racconta le sue presunte nuove verità, non riscontrate e, ritengo, non riscontrabili. Se così fosse è evidente che non si possa parlare di verità ma di supposizioni probabilmente campate in aria.

La prima stranezza è che da via d’Amelio d’improvviso spariscono entità esterne, agenti dei servizi segreti deviati e la “trattativa” Stato-mafia come motivazioni cardine della scelta di uccidere Paolo Borsellino. A questo punto alcune domande nascono naturali: Avola è un avvelenatore di pozzi? Siamo di fronte ad un ennesimo depistaggio? Chi lo sta utilizzando? Per quali fini?

A queste domande una prima risposta la offre la Procura della Repubblica di Caltanissetta che emette un comunicato stampa in cui, a proposito della presenza di Avola nelle fasi di preparazione ed esecuzione della strage di via d’Amelio afferma testualmente: “Tale circostanza è, in effetti, stata riferita per la prima volta dall’Avola nel corso di un interrogatorio svoltosi lo scorso anno dinanzi ai magistrati di questa D.D.A., a distanza di oltre venticinque anni dall’inizio della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria.

I conseguenti accertamenti disposti da questa D.D.A:, finalizzati a vagliare l’attendibilità di dichiarazioni riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie, non hanno allo stato trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Dalle indagini demandate alla DIA sono per contro emersi rilevanti elementi di segno contrario che inducono a dubitare tanto della spontaneità quanto della veridicità del suo racconto.

Per citarne uno, tra i tanti, l’accertata presenza dello stesso Avola in Catania, addirittura con un braccio ingessato, nella mattinata precedente il giorno della strage, la dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore, egli, giunto a Palermo nel pomeriggio di venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di un’abitazione sita nei pressi di via Villasevaglios, pronto, su ordine di Giuseppe Graviano, a imbottire di esplosivo la fiat 126 poi utilizzata come autobomba”.

Un ultimo interrogativo lo poniamo a noi stessi e agli italiani: c’è forse qualcuno che ha paura che ci si avvicini alla verità su quel periodo e su quelle stragi? A tal proposito mi risuonano profetiche le parole di Pasolini: “Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”.

Alle parole del poeta e scrittore aggiungerei il mio modesto pensiero: “Io so, perché me lo hanno insegnato a scuola, che lo Stato dovrebbe essere il primo a volere la verità e a difendere con ogni mezzo quei morti uccisi soltanto perché facevano semplicemente il loro dovere!”.

A trent’anni dalle loro morti però lo Stato non ancora rende giustizia al loro sacrificio!



Vincenzo Musacchio
, giurista e docente di diritto penale, è associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). E' ricercatore dell'Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. E’ stato allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto.