Poche storie. Ognuno di noi, prima di sbarazzarsene per vergogna, necessità o semplice inutilizzo, si è ritrovato in casa almeno un oggetto apparentemente insensato che però, nel corso degli anni, ha assunto un valore affettivo derivante da una rivalutazione esistenziale legata ora a una recondita nostalgia mnemonica, ora a una effettiva riconsiderazione col senno di poi ma, ad ogni modo, riferita a una reale consistenza di ciò che quell’oggetto rappresentava per una contemporaneità impossibile da decifrare anagraficamente e col giusto quoziente intellettivo o, almeno, con una sempre indispensabile apertura di spirito.

Era il 1992 e il mio oggetto della discordia era un disco. Precisamente Hanno ucciso l’Uomo Ragno degli 883.

Mentre provi a smettere di ridere ti dico che avevo otto anni, ero un bambino e come unico desiderio, ogni santo giorno, avevo quello di trascorrere ore tranquille e serene coi miei amichetti delle elementari sotto un portico di via Giovanni Battista ad Avellino, giocando a pallone, parlando di pallone – naturalmente con linguaggio da infanti – e, nelle pause tra una porta tedesca e l’altra, smazzando qualche decina di partite a “lettere” con le figurine dei calciatori (sì, proprio quella specie di malefico gioco d’azzardo dove, a turno, ogni giocatore, forte del suo bel mazzetto di doppioni Panini, si giocava tutto sperando che, a piatto centrale formato, la P di Piacenza, piazzata in un punto strategico del mazzo, coincidesse con la P di Parma, Palermo, Pisa, Pescara, Padova, Pro Sesto o Perugia per papparsi tutto il cocuzzaro tipo asso pigliatutto). Ero un bambino e, come desiderio di riserva, avevo quello di una festa di compleanno che fosse definibile in quanto tale, spesso quasi equiparata da una pizzata tra compagni di scuola e amici di famiglia in sostituzione della consueta rimpatriata casalinga tra zii e parentele limitrofe (non fraintendiamo: non posso che reputarmi fortunato perché davvero in tanti, per una vita intera, non hanno mai visto neanche questo).

La cosa ebbe luogo, come Dio comanda, praticamente un’unica volta proprio nel novembre del 1992. Per qualche inspiegabile motivo, i miei decisero che quell’anno si sarebbe dovuto convogliare il tutto tra le mura di una discoteca (credo di chiamasse La Vallée, o qualcosa del genere, comunque oggi non esiste più; ma come diamine ci si era arrivati…forse i soliti agganci di nonno cancelliere al Tribunale e uomo fidato di principali notai e pezzi grossi di zona che gli dovevano l’ennesimo favore). In risultato, ci fu una festa spettacolare: si presentò quasi l’intera classe oltre la naturale troupe amici e compagnia cantante, ci fu un buffet madornale e Marina (l’animatrice che mia madre, in simili occasioni, chiamava a rapporto per ridestare dal torpore provinciale noi poveri sventurati in erba) diede veramente il meglio di sé inventandosi giochi a più non posso, sempre dividendoci tutti in due squadre (gialli e blu) con tanto di nastro colorato recante nome e appartenenza di momentaneo rango bellico. Serata breve, intensa e spettacolare (l’indomani alcuni miei compagni di classe, addirittura, si complimentarono con mia madre) ma, soprattutto (eravamo pur sempre in una discoteca), inframezzata da una improvvisa e obbligatoria chiamata in pista (sì, erano gli anni ’90, c’era ancora la “mirror ball” e le più primitive luci stroboscopiche; sì, anche le pareti specchiate coi lustrini). Colonna sonora di quel quarto d’ora di follia momentanea tra infanti: Ciao mamma di Jovanotti, Viva la mamma di Edoardo Bennato e, dulcis in fundo, il successone pop del momento, ovvero Hanno ucciso l’Uomo Ragno degli 883.

Per un motivo o per un altro, nei giorni successivi mi sarei appitonato a quest’ultimo pezzo in particolare, a tal punto da stalkerare selvaggiamente i miei a mo’ di Tony Tammaro col Telefono Azzurrino pur di farmi piazzare sotto l’imminente albero di Natale una copia di quell’album che tanto stava spopolando in lungo e in largo per il paese. 33 giri che alla fine trovai dentro la rossa carta da regalo nella busta di Ananas & Bananas (lo storico negozio di dischi dove avrei, in seguito, piantato le tende) e che, per qualche anno, deflorai selvaggiamente sotto la scure di un vecchio Lenco che al posto della puntina aveva qualcosa di più simile a un aratro. Riascoltando continuamente quel pezzo, assieme agli altri presenti sulle due facciate, rievocavo quasi meccanicamente quella splendida serata in discoteca coi miei amichetti dell’epoca, fermando il tempo almeno per un po’ e, in questo, vivendo momenti in prossimità di una qualche definizione di tranquilla serenità. Cosa per me non facile da ottenere, in seguito a varie circostanze, in quella fase di esistenza terrena.

L’anno successivo (credo fosse l’estate del 1993), non poteva che essere naturale l’esigenza di usufruire del seguito di una tale fascinazione momentanea. Il colpevole, stavolta, era Nord Sud Ovest Est, ulteriore prodotto cecchettiano ipercommerciale ma irresistibilmente attraente per noi teneri imberbi, nonché immancabile sequel per quanto vissuto con l’esperienza precedente.

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