a cura di Lorenzo Francesco, AITA CTS ANPPE Vigili del Fuoco
Nell’ultimo trentennio la temperatura del pianeta ha subito un incremento consistente in conseguenza delle attività esercitate dalla nostra specie, tra queste principalmente la combustione di fonti fossili e, in quantità minore ma significativa, la deforestazione e l’allevamento intensivo. Secondo gli esperti, senza misure importanti di mitigazione il riscaldamento potrebbe ancora aumentare in media di altri 2 o 4 gradi entro fine secolo, con accrescimenti superiori nelle zone più fredde del pianeta come ad esempio le nostre aree montuose. L’ultimo Special Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) del 2019, dal titolo “Relazione speciale sull’oceano e la criosfera in un clima che cambia”, illustra l’urgenza di dare priorità in maniera tempestiva ad azioni coordinate e ambiziose per affrontare cambiamenti persistenti e senza precedenti che riguardano l’oceano e la criosfera. Nelle regioni montane del nostro pianeta, le persone sono sempre più esposte a pericoli e a diminuzioni della disponibilità di risorse idriche. Ghiacciai, neve e permafrost si stanno riducendo senza sosta. Ciò com’è prevedibile aumenterà la pericolosità in termini di frane, valanghe e alluvioni, ed il lavoro del CNVVF dovrà essere sempre più tempestivo e mirato ai nuovi problemi che arriveranno. L’arretramento della criosfera in alta montagna continuerà ad influenzare negativamente attività ricreative, turistiche e culturali. L’impoverimento dei ghiacciai in alta montagna ridurrà la disponibilità e la qualità dell’acqua a valle, con conseguenze per molti settori quali l’agricoltura e l’idroelettrico. I cambiamenti nella disponibilità idrica non colpiranno solamente le persone che abitano le regioni di alta montagna, ma anche le comunità molto più a valle.
Il maggior aumento di temperatura si riscontra nelle regioni dell’arco alpino e in gran parte dell’Appennino centrale. Le Alpi si sono riscaldate il doppio della media globale tra la fine del XIX e l’inizio del XXI secolo, e si prevede che la tendenza al riscaldamento più rapido a quote più elevate continuerà fino alla metà del XXI secolo, indipendentemente dalla scelta dello scenario climatico futuro. Oltre la metà del XXI secolo, il riscaldamento atmosferico in montagna sarà più forte in uno scenario ad alta emissione di gas serra, mentre si potrà stabilizzare a metà del XXI secolo in uno scenario in cui le emissioni siano ridotte. Il riscaldamento in montagna è accentuato da quello che viene definito effetto di feedback. Com’è noto la criosfera, ovvero la parte della superficie terrestre che risulta coperta da ghiacci o da neve, riflette l’energia solare. Se la superficie riflettente è ridotta, anche la quantità di riflessione (effetto sull’albedo) diminuisce e il sole riscalda ancora di più il pianeta.
Nelle montagne italiane il rialzo delle temperature è particolarmente accentuato anche a causa della loro posizione continentale (nel centro-sud dell’Europa). Le nostre montagne inoltre risentono dell’influenza del clima mediterraneo che favorisce il consolidamento di inverni sempre più miti e umidi ed estati sempre più siccitose. A fare la differenza con la pianura contribuisce la presenza di aerosol inquinanti (particolato) che tendono a ‘mascherare’ l’incremento delle temperature a bassa quota, insieme ad altri processi fisici che coinvolgono cambiamenti nel vapore acqueo e nei flussi radiativi. Non ci devono trarre in inganno la breve e intensa ondata di freddo del mese di gennaio 2022 e le abbondanti nevicate che hanno avvolto l’Italia durante l’inverno passato. Probabilmente anche questa anomalia è causata dal riscaldamento climatico. Un recente studio pubblicato sulla rivista Nature spiega il legame tra il riscaldamento globale degli ultimi decenni e l’aumento degli eventi di freddo estremo. A quanto pare, le temperature elevate del Pacifico influiscono sull’aria che arriva dalla Siberia, ne favoriscono la risalita e modificano così le condizioni della stratosfera, influenzando l’arrivo di repentine ondate di freddo dall’area artica. Va ricordato che quando si discute di condizioni metereologiche occorre avere sempre ben chiara la differenza tra tempo metereologico e clima, due parametri che non devono mai essere confusi. Il tempo metereologico è una successione di fenomeni atmosferici dalla durata molto limitata, dell’ordine di ore o di giorni. Il clima invece rappresenta l’insieme delle condizioni meteorologiche (cioè del tempo) che si osserva in un dato luogo, sulla base di rilevazioni effettuate per un periodo di almeno 30 anni. Ad oggi tutti gli studi ci confermano che, nonostante negli ultimi decenni si siano verificate annate nevose eccezionali, l’andamento complessivo nella crescita delle temperature invernali non presenta alcun segnale di inversione. I cambiamenti climatici attesi per un’area significativa quale è quella del Monte Bianco, studiati e descritti dal progetto AdaPT Mont-Blanc - Rapport Climat del novembre 2021, rendono estremamente evidenti le preoccupanti dimensioni dell’incremento delle temperature. In quest’area si prevede un progressivo e consistente aumento, in tutte le stagioni, accompagnato da una ridistribuzione stagionale delle precipitazioni. Per il 2050 è atteso un riscaldamento tra 2 e 3°C, ancora più marcato durante la stagione estiva. In estate, l’isoterma, 0°C (zero termico), salirà di 300 m di altitudine, passando dai 3.800 m di oggi durante la stagione estiva a 4.100 m nel 2050. Entro fine secolo, è previsto un ulteriore riscaldamento che va dai 3 ai 7°C, in funzione degli scenari di emissione di gas a effetto serra considerati.
La letteratura scientifica è concorde nel ritenere che gli inverni diventeranno, non solo più miti, ma anche più umidi con precipitazioni maggiormente connotate da pioggia intensa. Le precipitazioni invernali potranno quindi essere soggette a incrementi e “estremizzazioni”, ossia contraddistinte da forte intensità, mentre i periodi estivi, sempre più lunghi, saranno contrassegnati da ondate di calore e siccità. I nuovi scenari saranno perciò caratterizzati da deviazioni più marcate rispetto alla situazione media. In conseguenza della trasformazione del regime pluviometrico, crescerà il dissesto idrogeologico. Si prevede un maggior rischio di alluvioni nel periodo autunnale e invernale e l’aumento di eventi franosi, che vedrebbero accrescere il loro impatto ambientale nel momento in cui si combinassero con la costante diminuzione del permafrost a causa delle temperature troppo elevate. Aumenteranno le colate rapide di fango e detriti, i fenomeni di erosione del suolo o smottamenti, le valanghe e le slavine, le frane e le esondazioni, in grado di danneggiare le infrastrutture, comprese quelle riguardanti il turismo sciistico.
La neve al suolo è una componente essenziale e diffusa della criosfera montana. Gioca un ruolo chiave nella formazione dei ghiacciai e fornisce una copertura isolante riflettente sulla loro superficie; influenza il regime termico del terreno sottostante, incluso il permafrost, con implicazioni positive per gli ecosistemi. Per questi motivi sarà importante capire come nel futuro prossimo varierà la copertura nevosa al suolo. Al momento molti esperti prevedono che rispetto al 1986-2005, la profondità della neve a bassa quota diminuirà probabilmente del 10-40% entro il 2031-2050. In conseguenza delle sempre più frequenti le anomalie meteo-climatiche e negli ultimi 15 anni molte le stazioni a media altitudine hanno risentito di una diminuzione costante delle giornate con neve al suolo, specialmente nei periodi di apertura (novembre-dicembre) e di chiusura (marzo-aprile) delle stagioni invernali. Nel periodo tardo invernale e primaverile soprattutto sull’Appennino si sono osservate diffuse ed intense precipitazioni nevose con formazione di estesi ed abbondanti accumuli di neve, sempre più umida e pesante seguite da rapidissime fusioni che, oltre a ridurre repentinamente la durata della copertura nevosa, possono determinare conseguenze importanti sull’instabilità del manto nevoso e, più in generale, sul rischio idrogeologico. Le Alpi svizzere pur essendo in una condizione climatica più favorevole rispetto alle montagne italiane risentono anch’esse pesantemente della crisi in atto. Anche la comparsa tardiva della neve in autunno produce i suoi effetti sulle stazioni situate alle quote più basse. Inoltre, negli ultimi decenni, i massimali annui delle precipitazioni nevose e delle altezze del manto nevoso sono tendenzialmente in calo presso tutte le stazioni. In media si prevede una diminuzione significativa del numero di giorni di gelo da 30 a 100 giorni all’anno entro fine secolo, e quindi di copertura nevosa con un impatto diverso a seconda dell’altitudine considerata. Per alcuni studiosi, la maggiore riduzione è addirittura prevista sopra i 2300 m di altitudine. Il Permafrost definito come quel substrato che mantiene una temperatura di 0°C o inferiore per almeno due anni consecutivi, ha un ruolo fondamentale nella stabilità dei terreni di alta montagna. Anche se impercettibile, copre una vasta area delle pareti della montagna. A differenza dei ghiacciai e della neve, il permafrost è un fenomeno sotterraneo che non può essere facilmente osservato a distanza. Di conseguenza, la sua distribuzione e il suo cambiamento sono meno conosciuti rispetto a ghiacciai o neve, e in molte regioni di montagna la scomparsa del permafrost può essere solo dedotta. Quando le temperature aumentano in estate, il permafrost si degrada, causando una maggiore instabilità del terreno roccioso. Negli ultimi 20 anni, in molti casi il permafrost è quasi scomparso nei versanti meridionali delle Alpi fino a quote inferiori ai 3300m. Nel caso del massiccio del Monte Bianco entro il 2100 non dovrebbe più essere presente nelle pareti meridionali sotto i 4300m o addirittura, secondo gli scenari più critici, scomparire completamente dalle pareti sud del monte.
Si invoca per cui una presa di posizione da parte del governo e soprattutto una consapevolezza europea sullo scenario che si andrà a verificare nei prossimi anni. Gli investimenti sulla transizione ecologica devono passare anche da qui dove le situazioni si prospettano più drastiche e per la morfologia del territorio si avranno ripercussioni più rapide rispetto al resto dell’Italia collinare e pianeggiante. Investimenti anche nella formazione professionale dei soccorsi che, come già detto in precedenza, saranno fondamentali nell’arginare tutti i percoli naturali futuri.
BIBLIOGRAFIA
- Città Sicura, I cambiamenti naturali, 2021
- Edoardo Cremonese, Brad Carlson, Rapport Climat - Cambiamenti climatici nell’area del Monte Bianco e impatti sulle attività umane, 2019
- Permanent Secretariat of the Alpine Convention, Climate-neutral and Climate-resilient Alps, 2021
- Zebre, Colucci, 200 anni di variabilità dell’altitudine della linea di equilibrio attraverso le Alpi europee (1901 -2100), 2020
- Special Report on the Ocean and Cryosphere in a Changing Climate — (ipcc.ch)