La lunga strada per la pace. Le religioni convocate, Così il titolo di un articolo di Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto in Avvenire. A raccogliere l'invito anche il Movimento Internazionale dei sacerdoti sposati che al margine della Chiesa Cattolica continua con i suoi sacerdoti ad adempiere alla chiamata sacerdotale della preghiera.

Di seguito l'articolo:

"Il fatto che le religioni siano fattori determinanti ed espressioni rappresentative delle differenti culture può essere difficilmente contestato: mi sembra perciò essenziale valutare se e in che misura esse possano giocare un ruolo nella risoluzione dei conflitti e nella costruzione di una pace basata sulla verità e la giustizia. Giudaismo, Cristianesimo e Islam, in particolare, stanno al cuore di un tale asserto, non solo nella prospettiva del loro impatto storico e culturale, ma anche a motivo della sfida posta oggi dalla crisi provocata dall’attacco sferrato dai terroristi di Hamas contro tanti innocenti civili israeliani lo scorso 7 ottobre.  
Nella terra promessa ai loro Padri gli ebrei oggi possono esprimersi nella pienezza delle loro potenzialità. Questo dato positivo e inalienabile è comunque connesso alle circostanze del confitto Israelo - Palestinese, percepito da molti come un “vulnus” permanente all’edificazione della pace mondiale. In conseguenza della nascita dello Stato d’Israele, come del tragico impatto degli eventi della “Shoah”, la relazione fra cristiani ed ebrei è oggi divenuta l’oggetto di una nuova consapevolezza: Israele e la Chiesa camminano insieme verso il compimento delle promesse di Dio per tutta l’umanità. Questo vuol dire che Ebrei e Cristiani possono e devono cercare un percorso verso la riconciliazione voluta dall’Eterno, che oscuri ogni teoria della sostituzione, secondo cui la Chiesa avrebbe semplicemente preso il posto del popolo eletto nel disegno divino della salvezza: Israele rimane il testimone dell’elezione e delle promesse di Dio e si offre alla Chiesa come la “santa radice” (cf. la Lettera di Paolo ai Romani 11,16 e 18), su cui è innestato l’albero cristiano e da cui non deve mai estraniarsi. Non potrà esserci, dunque, alcun autentico cammino di riconciliazione fra Chiesa e Israele senza un riconoscimento dell’indiscutibile valore di questa “santa radice”, e quindi senza un vero amore dei Cristiani per la promessa fatta ai Padri, per gli scritti in cui essa è contenuta e per il popolo ebraico che è stato e continua ad esserne testimone nella storia perfino a costo della propria vita. Ecco perché è necessario che come cristiani riconosciamo gli errori commessi contro gli ebrei e identifichiamo chiaramente quanti ne furono effettivamente responsabili. Ciò va fatto non solo rispetto alla Shoah, ma anche in generale in relazione a quell’“insegnamento del disprezzo”, che fu causa di tanto antisemitismo e di tante sofferenze sperimentate dal Popolo eletto. C’è bisogno di confessare gli errori commessi dai Cristiani con una larghezza di cuore che renda possibile la richiesta di perdono in nome di coloro che furono gli effettivi responsabili. Quest’atteggiamento di conversione (“teshuva”) è non di meno richiesto al popolo ebraico rispetto alle responsabilità storiche che specialmente oggi gli sono proprie: precisamente così gli Ebrei dimostreranno l’eccellenza della loro elezione e l’unicità dell’esperienza della misericordia divina in ordine a testimoniare l’unico Dio, Padre di tutti, con i discepoli di Gesù, ebreo ed ebreo per sempre.
L’altra tradizione religiosa chiamata a svolgere un ruolo guida nel costruire un nuovo ordine mondiale basato sulla giustizia e la pace è l’Islam. Come scrive il teologo e storico domenicano Georges Anawati «non dobbiamo dimenticare il grande potenziale al servizio del bene che l’Islam rappresenta per la maggioranza dei suoi fedeli … Milioni di Musulmani, nella loro umile sottomissione alla volontà di Dio, con la loro fedele osservanza delle prescrizioni della Legge, con il loro quotidiano esercizio delle virtù della pazienza, dell’aiuto reciproco e dell’accettazione della sofferenza, trovano una forza morale che permette loro di rispondere qui sulla terra alla loro vocazione di persone religiose». Certamente un simile approccio non deve oscurare l’uso della violenza ammesso dall’Islam per imporsi: la “guerra santa” rimarrà sempre una possibilità - perfino esemplare - per un Musulmano. Arriviamo così a un insieme di questioni che più di tutte le altre accendono il dibattito su quale tipo di contributo l’Islam può dare alla causa della pace: un esempio sarebbe la condanna che ogni musulmano dovrebbe esprimere dell’ignobile attacco perpetrato dai terroristi di Hamas contro tanti innocenti civili ebrei il 7 ottobre scorso. Le atrocità messe in atto da Hamas assassinando, bruciando vivi, massacrando, violentando e rapendo civili israeliani - neonati, bambini, donne, anziani, malati e feriti - possono essere paragonate solo ai crimini dell’ISIS e dei Nazisti. La dura risposta dello Stato d’Israele deve essere una lotta contro i terroristi, non una guerra a un popolo, che causa immenso dolore e tanti morti fra i civili. Come amico d’Israele e degli altri popoli che abitano la Terra Santa, credo nella necessità del dialogo per giungere a una pace giusta, su cui tanto insiste Papa Francesco. So che molti amici ebrei e arabi la pensano come me. La tregua raggiunta con l’accordo delle parti è stata un esempio di questa possibilità. Spero che tutti gli amici della pace, Ebrei e Arabi, vogliano far sentire la loro voce per intraprendere un tale cammino, al quale il mondo intero guarda con ansia e speranza.  Certo, la mia voce è solo l’appello di un amico fraterno, che ama la Terra Santa e desidera che essa sia una terra di giustizia e di pace per tutti. Chi vorrà ascoltare questa voce, ispirata solo dall’amore a Israele e a tutti coloro che vivono nella terra dove il Nome santo e Benedetto risuona su così tante labbra e in così tanti cuori umili e aperti agli altri? Chi sarà pronto a unirsi a un tale auspicio e ad una simile preghiera?"

(Avvenire, domenica 3 dicembre 2023).