“La disgrazia di nascere in Sicilia” di Davide Romano, giornalista
«Non v'è peggior disgrazia che nascere in Sicilia», scrisse Leonardo Sciascia. Un'affermazione che sembra esagerata, ma che chiunque abbia avuto l'opportunità – o la sfortuna – di vivere in quest'isola, può comprendere. La Sicilia è un teatro in cui si svolge un dramma perpetuo: quello di una terra che non riesce mai a liberarsi dalle proprie catene, invisibili ma ferree, imposte dalla storia, dalla geografia, e, soprattutto, dalla mentalità.
La Sicilia come metafora della condanna
Per molti, la Sicilia è la terra del sole, del mare e delle arance. Per chi ci vive, invece, è spesso un inferno di contraddizioni. Il filosofo Friedrich Nietzsche, che visitò l'isola, descrisse il sud Italia come «un meraviglioso tramonto, una civiltà in decadenza». Se il meridione è un crepuscolo, la Sicilia è l'ombra più lunga, un luogo dove la decadenza non è solo culturale, ma morale e civile.
Tomasi di Lampedusa, nel suo celebre Il Gattopardo, fece pronunciare al principe di Salina una frase emblematica continuamente citata quando si parla dell’Isola: «Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi». Questa mentalità statica, questa resistenza al cambiamento, è uno dei drammi siciliani più profondi. La rassegnazione che si cela dietro l’inevitabilità del destino è una catena che lega la popolazione a una storia di miseria, clientelismo e oppressione.
La religione e il fatalismo siciliano
Sciascia, con il suo feroce sguardo critico, osservava che la Sicilia è terra di santi e di mafia, e che l’uno spesso cammina a braccetto con l’altra. La Chiesa cattolica, in una società tanto permeata dalla religione, non ha sempre rappresentato un faro di redenzione, ma ha talvolta contribuito a rafforzare un sistema di potere fondato sul clientelismo e sul silenzio. Come osservò il teologo Hans Küng, «la religione può essere la radice tanto del male quanto del bene», e in Sicilia, troppo spesso, è stata strumento per giustificare l’oppressione e la sottomissione.
Basta camminare per le vie di Palermo o Catania per percepire l’intreccio tra sacro e profano: chiese maestose affiancate da palazzi in rovina, processioni religiose in onore di santi che benedicono i boss locali. Quello che Sciascia chiamava il “consociativismo mafioso” si è infiltrato persino nei luoghi più sacri, rendendo la fede un paravento dietro cui si nasconde un sistema di potere opaco e inossidabile.
Il peso della storia: tra mito e realtà
Lo storico siciliano Rosario Romeo osservò che «la Sicilia è sempre stata considerata come un’isola ai margini della civiltà europea». Una definizione che sembra confermare l'idea di Sciascia secondo cui il siciliano, più che vivere, sopravvive. «Il siciliano non cerca la felicità, perché sa che non esiste», scriveva Sciascia. Questo atteggiamento fatalista ha radici profonde: da una parte l'oppressione dei dominatori stranieri (arabi, normanni, spagnoli, borboni), dall'altra l'inadeguatezza della classe politica locale, incapace di emanciparsi da quella “colonizzazione interna” descritta da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere.
Anche lo scrittore Luigi Pirandello, originario di Agrigento, esprimeva un concetto simile: «Là dove si vorrebbe vedere verità, c’è maschera; là dove si cerca autenticità, si trova finzione». La Sicilia è, per lui, la patria dell'inganno, dove la realtà è perennemente filtrata attraverso un velo di convenzioni e bugie. Questo gioco di maschere, questa incapacità di vivere autenticamente, è forse il più grande lascito dell’isola ai suoi figli.
La speranza nella fuga: emigrare per non morire
«Fuggire, partire, andar via – questa è stata sempre la vera utopia del siciliano», scriveva Gesualdo Bufalino, altro grande interprete della malinconia isolana. La Sicilia è una prigione dorata per chi vi nasce, e molti trovano salvezza solo lasciandola alle spalle. Tuttavia, anche l’emigrazione porta con sé un carico di dolore. «Si fugge da una prigione per entrare in un'altra», osservava lo scrittore. Chi emigra non trova sempre una vita migliore, ma spesso una nuova forma di alienazione.
Il filosofo Jean-Paul Sartre, visitando la Sicilia, la descrisse come un’isola in cui «la vita è prigionia, e la libertà è un miraggio». Questo senso di imprigionamento esistenziale è forse l’aspetto più tragico della sicilianità. Non si fugge mai davvero dalla Sicilia, nemmeno lasciandola fisicamente. È una terra che rimane dentro, un nodo che non si scioglie.
La cultura della rassegnazione
Nonostante i suoi limiti, la Sicilia ha prodotto alcune delle menti più brillanti della cultura italiana. Sciascia, Pirandello, Verga, Quasimodo: tutti accomunati da una visione amara dell’esistenza, da un senso di rassegnazione che sembra inscritto nel DNA dell’isola. «La nostra è una cultura di sconfitti», ammetteva Sciascia. Una cultura che ha saputo trasformare il dolore in arte, ma che non ha mai saputo liberarsi dal giogo della sottomissione.
Come disse il filosofo esistenzialista Albert Camus, «in Sicilia, si scopre che il sole può uccidere tanto quanto la miseria». E questo sole, questa luce implacabile, è il simbolo di una condizione esistenziale che schiaccia i siciliani sotto il peso della storia, della tradizione, e della loro stessa terra.
Un destino ineluttabile?
La disgrazia di nascere in Sicilia non è una condanna alla sofferenza, ma un invito alla consapevolezza. Chi nasce in Sicilia eredita
una storia complessa, fatta di grandezza e miseria, di bellezza e corruzione. Come scrisse Ignazio Buttitta, poeta siciliano: «Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua, ereditata dai padri: è perso per sempre». E forse è proprio nella lotta per conservare la propria identità, al di là delle imposizioni esterne e interne, che risiede la sfida più grande per chi nasce in questa terra.
Non è necessario fuggire per essere liberi, ma è necessario, come suggeriva Pirandello, guardarsi allo specchio e riconoscere le proprie maschere. Solo così si potrà sperare in un futuro diverso, in cui la Sicilia non sia più una disgrazia, ma una possibilità di rinascita.
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