Non è di molto tempo fa il bel film sulla vicenda del ritratto di Adele Bloch-Bauer che riportava agli onori della cronaca il problema dei beni sequestrati - ma il termine più corretto è rubati - agli ebrei da parte dei nazisti, prima e durante la seconda guerra mondiale.

È invece più recente un articolo dell'agenzia di stampa Near East News Agency in cui si ricorda che da parte di Israele il concetto giuridico di terra di nessuno non venga interpretato secondo quello che è l'attuale indirizzo del sistema legislativo di molti paesi che, in materia, tende a tutelare i diritti dei popoli autoctoni, anche in base alla dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni del 2007 che delinea le nuove norme internazionali, verso il rispetto delle leggi consuetudinarie, proibendo "l’appropriazione di terre e risorse dei nativi o il trasferimento forzato di comunità autoctone."

Eppure, nonstante questo, Israele sta portando avanti in Parlamento l'approvazione della "Legge per la regolazione" che ha come intento finale quello di allargare l'insediamento delle colonie nelle terre occupate dopo il 1967 e di dare una copertura legale agli insediamenti già esistenti, che invece dovrebbero essere smantellati.

Un atteggiamento a dir poco curioso quello di Israele e degli ebrei che, da una parte si commuovono giustamente per le atrocità e le ingiustizie subite durante il passato e culminate con lo sterminio durante il periodo nazifascista, dall'altra utilizzano i sofismi della tradizione culturale ebraica per giustificare il possesso e lo sfruttamento, a discapito della popolazione autoctona, di territori in cui lo status giuridico israeliano è definibile solo con il termine occupante.


Questo modo di agire è stato supportato anche, se non soprattutto, dall'appoggio alla politica israeliana da parte di molti paesi, e primo tra tutti gli Stati Uniti, per interessi di carattere geopolitico, senza dimenticare le attività delle lobby ebraiche che operano nel campo della finanza ed in quello dei media.

Israele ha sempre disatteso qualsiasi invito a rivedere le proprie posizioni da parte della comunità internazionale, grazie all'appoggio americano. Appoggio che, finora, era sempre stato offerto anche in sedi ufficiali come quella dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

Ieri, però, gli Stati Uniti, per la prima volta, si sono astenuti in una votazione che riguardava Israele, proprio al Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Malesia, Nuova Zelanda, Senegal e Venezuela avevano presentato una risoluzione in cui si dichiara che gli insediamenti eretti da Israele nei territori occupati dopo il 1967 non hanno alcuna validità legale e costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale, oltre ad essere ostacolo al processo di pace basato sulla soluzione di due Stati.

I 15 membri del Consiglio di Sicurezza ONU hanno votato la risoluzione che è passata grazie all'astensione degli USA. Un fatto sicuramente importante, anche perché ad Israele, nello stesso documento, viene imposto di cessare qualsiasi attività relativa all'instalalzione di nuovi insediamenti, anche a Gerusalemme Est, oltre a ribadire che non ci sarà alcun riconoscimento nella modifica delle linee di confine rispetto a quelle del 4 giugno 1967.

L'amministrazione Obama ha voluto mandare, a fine mandato, un messaggio ad Israele ed alla politica finora seguita da Israele. Non proprio un viatico, soprattutto se visto dal punto di vista della diplomazia, dove i precedenti vengono misurati e pesati anche in relazioni a decisioni e pronunciamenti futuri.

Inutile dire che Israele non abbia fatto festa, anche se è stata poi "rassicurata" dall'inopportuno intervento del presidente in pectore Donald Trump, che si è sentito in dovere di dichiarare che tutto sarà rimesso a posto dopo il 20 gennaio, data del suo insediamento.