Il direttore dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), Rafael Mariano Grossi, lo dice chiaramente: "Serve un ritorno alla diplomazia". Ma stavolta le sue parole non bastano a contenere le conseguenze della risoluzione approvata il 12 giugno, che ha condannato l'Iran per mancanza di trasparenza nel proprio programma nucleare. Quella risoluzione, volente o nolente, è stata il trampolino per il lancio dei missili israeliani, diventando un casus belli comodo e pericoloso.

Grossi, intervistato da diversi media tra cui al Jazeera, cerca ora di rimettere a posto i paletti: l'AIEA non ha mai parlato di una "bomba iraniana", né ha fornito prove di un progetto nucleare militare sistematico. Tuttavia, non può ignorare che l'Iran non ha fornito spiegazioni credibili sulla presenza di uranio in siti non dichiarati, come richiesto dal Trattato di non proliferazione (TNP) — un trattato che, per inciso, Israele non ha mai sottoscritto, proteggendo così il proprio arsenale nucleare dal minimo controllo internazionale.

Il punto centrale è tutto nei tempi. I dubbi sull'Iran non sono nuovi: l'AIEA aspetta risposte da sei anni. Eppure, la scelta di votare la risoluzione proprio ora, mentre i venti di guerra spirano più forti che mai, è sembrata più che un atto tecnico un segnale politico. Un regalo per Tel Aviv, che da mesi cercava un pretesto per un'azione diretta contro Teheran.

Il problema, però, non è solo di Grossi. L'AIEA non è un organismo indipendente: risponde all'ONU ed è controllata da un Consiglio di 35 Stati membri. La risoluzione del 12 giugno non è nata in solitaria, ma è stata promossa da Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania — gli stessi Paesi che oggi chiedono una de-escalation diplomatica. Una mossa a dir poco schizofrenica: da un lato, la condanna dell'Iran; dall'altro, la corsa a evitare un'escalation.

Il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato che "l'Iran preoccupa da tempo" e che "Israele ha diritto all'autodifesa", salvo poi invocare la calma. Peccato che la calma andasse tutelata prima, non dopo l'innesco di una miccia. Ora si corre ai ripari: a Ginevra è stato convocato in fretta e furia un incontro tra i diplomatici iraniani e i ministri degli esteri di Francia, Regno Unito e Germania, nel tentativo di "rimettere insieme i cocci". Gli Stati Uniti, dietro le quinte, benedicono l'iniziativa e affidano agli europei il compito di ribadire a Teheran che "l'Iran non può ottenere un'arma nucleare".

Il risultato è un quadro diplomatico che oscilla tra l'improvvisazione e il doppio standgard. Da una parte l'Iran, che continua a parlare di uso civile del nucleare mentre accumula uranio arricchito al 60% (inutile per l'energia, ma a un passo dalla soglia militare). Dall'altra gli Stati Uniti, che puntano alla trattativa, ma non escludono un attacco. E poi c'è l'Europa, che da una parte predica moderazione e dall'altra — come ha fatto il premier tedesco Friedrich Merz — ringrazia Israele per il "lavoro sporco".

In questo teatro di ambiguità, se non di manifesta follia, l'unico a non usare giri di parole è Benjamin Netanyahu: se dice che bombarderà, lo fa. E mentre la diplomazia arranca, le bombe parlano un linguaggio che nessuna risoluzione riesce più a contenere.