Nell'articolo precedente... - Alla fine della seconda guerra mondiale, i dirigenti delle compagnie petrolifere americane posero in essere una strategia economica che avrebbe cambiato il corso della storia: perché attingere alle riserve interne quando si potevano sfruttare quelle degli altri paesi possessori di ingenti giacimenti? Convinsero il presidente e il Congresso e le altre compagnie petrolifere europee che a loro volta fecero pressione sui rispettivi governi e ottennero che questi adottassero la stessa linea. Stati Uniti, Gran Bretagna e altri paesi europei posero in atto una politica economica che influenzò la politica estera dei governi che concesse loro esenzioni fiscali e altri incentivi necessari per garantire alla corporatocrazia il controllo delle forniture globali di petrolio.

“Questa decisione – che da allora è stata avallata da ogni presidente e Congresso – ha portato a politiche che hanno ridefinito confini nazionali, creato regni e abbattuto governi. Come l’oro, il petrolio è diventato un simbolo di potere e la base per assegnare un valore alle monete; a differenza dell’oro, è essenziale per le moderne tecnologie, per le industrie della plastica, chimiche e dei computer. In un primo momento sembrava che il piano di quei dirigenti avrebbe portato il benessere ai paesi produttori di petrolio del terzo mondo. Tuttavia, al pari dell’oro, si è rivelato una spada di Damocle. I paesi ricchi di petrolio erano simili ai cercatori all’epoca della corsa all’oro: appena avanzavano diritti su un terreno diventavano i bersagli di furfanti e imprenditori senza scrupoli.Più o meno nello stesso periodo in cui il petrolio si affermava come la risorsa chiave per entrare nella modernità, l’Unione Sovietica emerse come nemico pubblico numero uno. Gli storici riconoscono che i costruttori di imperi hanno bisogno di minacce esterne; l’Unione Sovietica ha svolto opportunamente questo ruolo per gli Stati Uniti. L’arsenale nucleare degli URSS conferiva credibilità alle affermazioni della corporatocrazia, secondo cui la guerra fredda esigeva approcci innovativi alla diplomazia internazionale”.

Il primo episodio accadde in Medio Oriente, in un paese ricco di petrolio, quando il primo ministro iraniano eletto democraticamente, Mohammed Mossadeq, nazionalizzò le proprietà di una compagnia petrolifera inglese affinché il suo popolo partecipasse ai ricavi del petrolio estratto dalla sua terra. Enrico Mattei aveva concordato con il primo ministro condizioni migliori e la fornitura di tecnologia e manutenzione degli impianti per lo sfruttamento dei giacimenti. L’Inghilterra chiese aiuto agli Stati Uniti che scartarono il proposito di un intervento militare temendo che avrebbe scatenato uno scontro nucleare con i Russi. Washington usò una nuova arma, un agente della CIA con alcuni milioni di dollari da spendere liberamente per organizzare dele sommosse in tutto il paese portò alla deposizione di un galantuomo, il primo ministro Mossadeq che fu sostituito con Reza Pahlavi un tiranno amico dei petrolieri: il primo sicario dell’economia si chiamava Kermit Roosevelt Jr. -nipote di Theodore – che collaudò un sistema meno sanguinario e meno costoso di una guerra ottenendo ottimi risultati per le compagnie petrolifere e dette via alla conquista di un impero.

Roosevelt era comunque un “dipendente” del governo americano – una spia della CIA – se lo avessero arrestato ci sarebbero state delle gravissime conseguenze per cui gli addetti ai lavori decisero di utilizzare agenti del settore privato: venivano ingaggiate società private che svolgevano il lavoro sporco per conto del governo.

Il fenomeno si consolidò e si perfezionò: i sicari scoprirono che non vi era necessità di aspettare le nazionalizzazioni dei giacimenti dei governi per manipolarne la politica: “Trasformammo la Banca Mondiale, l’FMI e le altre istituzioni ‘multinazionali’ in strumenti di colonizzazione. Negoziammo affari lucrosi per le corporation statunitensi, stringemmo accordi di ‘libero’ scambio che favorivano palesemente i nostri esportatori a spese di quelli del terzo mondo e sommergemmo gli altri paesi di debiti incontrollabili. In effetti, creavamo governi fantoccio che in apparenza rappresentavano il loro popolo ma in realtà erano al nostro servizio. Tra i primi ci furono l’Iran, la Giordania, l’Arabia Saudita, il Kuwait, l’Egitto e Israele.Parallelamente agli sforzi dei sicari dell’economia per dominare la politica globale, la corporatocrazia avviò campagne per accrescere il consumo di petrolio. Come i narcotrafficanti, gli esperti di pubbliche relazioni si sparsero per il pianeta, incoraggiando la gente a comperare merci vendute dalle multinazionali, merci spesso ricavate dal petrolio e prodotte, in condizioni spaventose, in fabbriche sfruttatrici del terzo mondo.”

Perkins, avvalendosi anche dei numerosi contatti avuti con giornalisti, economisti, funzionari di stato e delle multinazionali parla delle ulteriori conseguenze dalla deposizione di Mossadeq in poi: “Nei decenni successivi al colpo di stato in Iran, gli economisti citavano spesso esempi di rapide crescite economiche a riprova che la povertà stava diminuendo. Tuttavia, come abbiamo visto in Asia, le loro statistiche erano ingannevoli: oltre ad ignorare il degrado sociale e ambientale, non affrontavano i problemi a lungo termine.Il colpo di stato in Iran poteva anche aver portato al potere un dittatore amico delle compagnie petrolifere, ma aveva allo stesso tempo, istituzionalizzato i movimenti antiamericani in Medio Oriente. Gli iraniani non hanno mai perdonato agli Stati Uniti di aver deposto il loro amatissimo primo ministro, democraticamente eletto. Né glielo hanno perdonato i cittadini dei paesi confinanti.Gli studiosi di storia si chiedono cosa sarebbe potuto accadere se Washington avesse sostenuto Mossadeq e lo avesse incoraggiato a utilizzare i proventi del petrolio per aiutare il popolo iraniano a uscire dalla povertà. Molti concludono che ciò avrebbe spinto molti paesi a seguire un indirizzo democratico e avrebbe potuto evitare la terribile violenza che tormente da allora la regione. Invece, gli Stati Uniti avevano reso noto di non essere un paese di cui ci si poteva fidare. Noi americani non eravamo i difensori della democrazia che pretendevamo di essere e il nostro scopo non era quello di aiutare il terzo mondo. Volevamo semplicemente controllarne le risorse”.

È estremamente interessante il punto successivo che Perkins rivela ai suoi uditori: “Durante quello stesso periodo gli Stati Uniti ebbero seri problemi interni. Il processo di espansione della base di potere della corporatocrazia aveva sprofondato nei debiti la nostra nazione. Oltre ai giacimenti petroliferi anche le fabbriche che producevano le nostre merci erano sempre più dislocate in altri paesi. I nostri creditori all’estero pretendevano pagamenti in oro. Nel 1971 l’amministrazione Nixon rispose revocando il regime aureo.Ora Washington si trovava di fronte a un nuovo dilemma. Se i nostri creditori si fossero rivolti ad altre valute, la corporatocrazia  avrebbe potuto essere costretta  a restituire i prestiti al valore  che quelle monete avevano rispetto all’oro nel momento in cui aveva contratto il debito. L’unica sentinella a sbarrare la porta della bancarotta era la Zecca degli Stati Uniti, con la sua capacità di stampare moneta e stabilirne il valore. Era imperativo che il mondo continuasse ad accettare il dollaro come moneta di scambio”.

Perkins spiega come la politica e le multinazionali risolvono il problema utilizzando i sicari dell’economia con l’Arabia Saudita e coinvolgendo altri due alleati inconsapevoli, “(..) venuti in soccorso di Washington, entrambi dal Medio Oriente”.

Nixon organizza una squadra di salvataggio scegliendo gente in gamba e soprattutto scaltra: Kissinger, Shultz e Cheney.

Perkins continua: “Il primo alleato di Washington nella lotta per difendere la sovranità del dollaro fu Israele. I più – compresa la maggioranza degli israeliani – credono che la decisione di Tel Aviv di sferrare attacchi preventivi contro le truppe egiziane, siriane e giordane lungo le frontiere del paese in quella che è divenuta nota come la guerra dei Sei Giorni del 1967 fosse dettata esclusivamente dalla determinazione di Israele a proteggere i propri confini. L’espansione territoriale fu il risultato più evidente, alla fine di quella sanguinosa settimana, Israele aveva quadruplicato il proprio territorio a spese degli abitanti di Gerusalemme est, di parti della Cisgiordania, del Sinai egiziano e delle alture del Golan siriane.  Tuttavia la guerra dei Sei giorni è servita anche ad un altro scopo.La rabbia degli arabi era rivolta in buona parte contro gli Stati Uniti: sapevano che Israele non avrebbe mai vinto senza il sostegno economico e politico americano, né senza la minaccia, neanche troppo velata, che le nostre truppe intervenissero nell’improbabile eventualità che Israele avesse avuto bisogno di loro. Pochi arabi capivano che Washington aveva motivazioni ben più egoistiche che non difendere una patria ebraica, o che la Casa Bianca avrebbe volto a proprio vantaggio la loro rabbia.Il secondo alleato di Nixon, del tutto ignaro, fu l’intero Medio Oriente islamico: Come reazione alla guerra dei Sei Giorni del 1967, Egitto e Siria attaccarono simultaneamente Israele il 6 ottobre 1973 in occasione della festa ebraica più sacra: lo Yom Kippur”.

Il presidente egiziano Sadat consapevole dei rischi che comportava tale operazione militare, chiese al re dell’Arabia Saudita Feisal di usare l’arma del petrolio contro di Stati Uniti, il 16 ottobre del 1973 l’Arabia Saudita insieme ad altri quattro stati produttori del Golfo Persico annunciarono un aumento del prezzo pari al 70%; l’Iran aderì all’iniziativa per solidarietà. Subito dopo i ministri arabi sostennero all’unanimità l’idea di un embargo petrolifero.

Il 19 ottobre 1973 Nixon chiese al Congresso uno stanziamento di due miliardi e duecento milioni di dollari per aiutare Israele. Il 20 ottobre i produttori di petrolio arabi decisero un embargo totale contro di Stati Uniti.

Perkins dice: “All’epoca, in pochi intuirono l’astuzia dietro la mossa di Washington, o il fatto che fosse dettata dall’intento di sostenere un dollaro in difficoltà”.

Tali decisioni ebbero delle conseguenze notevoli sulle economie occidentali ma lasciamo parlare Perkins:(…) Ora sappiamo che la corporatocrazia ha svolto un ruolo attivo nel far salire il prezzo del petrolio a quei livelli record (era aumentato quasi sette volte rispetto a quattro anni prima). Sebbene i leader economici e politici, compresi i dirigenti petroliferi, si fingessero indignati, erano loro i burattinai. Nixon e i suoi consulenti ben sapevano che il pacchetto da due miliardi e duecento milioni di dollari di aiuti a Israele avrebbe costretto gli arabi a prendere misure drastiche. Sostenendo Israele, l’amministrazione aveva architettato una situazione che permise ai sicari dell’economia di realizzare l’affare più astuto e significativo del XX secolo.

Il Dipartimento del Tesoro statunitense contattò la MAIN (società in cui lavorava Perkins) e altre aziende di comprovata fedeltà alla corporatocrazia. Il nostro compito era quello di elaborare una strategia per garantire che l’OPEC convogliasse verso imprese statunitensi i miliardi di dollari che spendevamo per il petrolio, nonché di istituire un nuovo “regime petrolifero” che avrebbe sostituito il precedente “regime aureo”.  Noi sicari dell’economia sapevamo che il fulcro del piano era l’Arabia Saudita; poiché possedeva più petrolio di tutti, controllava l’OPEC; inoltre, la sua famiglia “reale” era corrotta ed estremamente vulnerabile.  Come ad altri “re” mediorientali, la regalità era stata concessa alla casa saudita dagli inglesi; i Saud capivano quindi la politica colonialista. (…) Come riferirono i media, la casa dei Saud acconsentì a tre importanti condizioni; avrebbe:

1) investito una larga parte dei suoi petrodollari in titoli di stato americani;

2) permesso al Tesoro statunitense di usare le migliaia di miliardi di dollari di interessi su quei titoli per ingaggiare corporation statunitensi per occidentalizzare l’Arabia Saudita;

3) contenuto il prezzo del petrolio entro limiti accettabili per la corporatocrazia.  Da parte sua, il governo degli Stati Uniti prometteva di mantenere al potere la famiglia Saud.

C’era un ulteriore accordo, che pur non facendo notizia era fondamentale per conservare la posizione del dollaro come moneta di scambio globale, a tutto vantaggio della corporatocrazia. L’Arabia Saudita si impegnava a vendere il petrolio esclusivamente in dollari statunitensi.

Con un tratto di penna era stata ristabilita la sovranità del dollaro. Il petrolio sostituiva l’oro come misura del valore di una moneta”.

 Agli economisti più esperti non era sfuggito che tale patto permetteva a Washington di imporre una tassa nascosta a tutti i creditori stranieri.

Perkins: “Poiché il dollaro regnava sovrano, compravamo le loro merci e i loro servizi a credito. Quando andavamo ad utilizzare quei crediti per acquistare petrolio (o qualunque altra cosa) dalle nostre società, il valore dei loro fondi era diminuito a causa dell’inflazione, la differenza tra i due importi se l’intascava la corporatocrazia: una tassa che non necessitava di esattori. (…) Quando Tel Aviv e Washington misero all’angolo il mondo arabo, gli arabi non ebbero altra scelta se non contrattaccare, con la guerra dello Yom Kippur e l’embargo dell’OPEC. Ciò spinse il Dipartimento del Tesoro statunitense ad agire. I sicari dell’economia furono ingaggiati per stringere con l’Arabia Saudita un patto che sposava il dollaro al petrolio. Il dollaro fu incoronato re e da allora regna sovrano”.

(continua...)