Non è un bel periodo per cercare la razionalità, soprattutto dove già si faticava a trovarla prima, ma il tema ritorna periodicamente in cronaca, fino a questi ultimi mesi, durante i quali si sperava che la gente cogliesse l’ occasione per riflettere: forse, la reclusione nelle mura di casa ha peggiorato la situazione?

Parliamo di violenza domestica, rivolta segnatamente verso i bambini, fino alle estreme conseguenze. No, per favore, non parlateci di Bibbiano, non schieratevi, non cercate la contrapposizione: non è il caso né il momento. I servizi sociali, sempre sotto accusa (in effetti, non sembrano seguire linee univoche), realisticamente non possono arrivare ovunque (e sempre meno lo potranno fare). Cogliamo l’occasione per ricordare Valentina Paladini, scomparsa nel 1991 a Roma, e mai ritrovata. Rifiutata dai genitori, fu affidata dal tribunale alla nonna, consumata meretrice, che chissà in che giri la condusse e scomparve con lei (cercate in web, lei e tutte le giovanissime vittime dell’indifferenza a tutti i livelli).

Illustreremo in sintesi cinque casi, tra i tanti beninteso, iniziando dalla madre (non cronologica, ma mediatica) di tutti i presunti infanticidi: Samuele Lorenzi, Cogne, 30 gennaio 2002. Su quanto accaduto ci effonderemo poco in quanto, tra plastici, generali garofani e contorno, la nuda cronaca è nota. La sentenza ci parla di una giovane donna emiliana, trasferitasi con il marito corregionale nella tranquilla Valle d’Aosta, per motivi che ci sfuggono (provenivano già da un quieto paesino appenninico), fino ad allora ritenuta moglie e madre esemplare, dai saldi valori cattolici la quale, in realtà, si sarebbe dibattuta in atroci tormenti, acuiti dalla solitudine in quella isolata baita dove faceva la casalinga. Dopo una notte angosciosa, insonne, con chiamate al pronto soccorso da parte dello sbigottito coniuge Stefano, sfatta e nervosa, rimasta sola e dopo aver accompagnato alla fermata dello scuolabus il figlio maggiore Davide, si sarebbe accanita sul piccolo Samuele, tre anni e forse un piccolo deficit di crescita, che l’aveva logorata con pianti e capricci irrefrenabili.

Sulle prime il fortilizio familiare si difese alludendo ad attriti con vicini di casa vendicativi, e l’atteggiamento di Annamaria, assediata dai media, sgomentò gli osservatori. Tra una sentenza e l’altra vedemmo delle foto dei coniugi sorridenti in spiaggia, poi accogliere un altro figlio, Gioele, nel 2003; prendemmo atto della sentenza non troppo persecutoria e oggi leggiamo che la Franzoni, terminato il solito “percorso” riabilitativo, si è trasferita in luogo ignoto con la famigliola, dopo essersi sempre proclamata innocente.

Conoscete le nostre perplessità allorquando non si trova l’arma del delitto, l’assassino non presenta tracce di sangue (in un bimbo ne circola meno che in un adulto, ma il colpo al capo fu forte e gli schizzi non mancarono) e si diffondono intercettazioni non contestualizzate. Finisce così.

Tiziana Deserto è una goffa ragazza d’origine pugliese; si è trasferita in Umbria con il mite ed esile marito compaesano, Massimo Geusa, da cui ha avuto la piccola Maria, di tre anni nel 2004, all’epoca dei fatti. La giovane, circa trentenne, si muove male nella vita, ci raccontano: sprovvista di strumenti culturali adeguati, frustrata da un matrimonio che la soffoca, pare dedita a scappatelle soprattutto telefoniche con ignoti amici in chat, a parte uno, il tipo del rude genovese, che si permette un andirivieni dalla Lanterna a casa di lei, e viceversa farà la ragazza, sotto gli occhi comprensivi di un marito che molti hanno ritenuto succube e, a tratti, condiscendente.

Poiché il trasferimento in centro Italia viene motivato con la reputazione traballante della mogliettina in Puglia, ma in realtà i due hanno lasciato un centro di pettegolezzi per un altro che non è da meno, i problemi continuano, mentre Massimo trova lavoro in nero presso un imprenditore edile, Giorgio Giorni di San Sepolcro: un single descritto in aula come solingo misogino, che però ritrova il sorriso alla conoscenza di questa famiglia immigrata, costretta a coabitare in un appartamento dove Tiziana viene descritta frivola e madre disattenta da una vicina, però parente del marito, che in tribunale si accanirà nelle accuse, e dalla coinquilina cubana, anche se con meno livore (questa donna, peraltro, presenta aderenze agli sfarfallamenti dell’imputata, non sempre chiare).

Fatto sta che il 5 aprile la piccola Maria arriva in ospedale più morta che viva; nonostante un’operazione di ricostruzione intestinale, la situazione precipita.

La strada processuale va in questa direzione: Giorgio Giorni ammette l’omicidio (era infastidito dalla presenza di Maria, con le sue effervescenze infantili), ma non la violenza carnale, e viene condannato; Tiziana viene coinvolta in una correità morale (innamorata di Giorni, gli avrebbe stoltamente affidato la figlioletta pur di accattivarselo, forse anche per convenienza economica, mentre prima finanziava gli amici di chat con l’esigua paga del marito), chiudendo gli occhi sulla morbosa attrazione dell’uomo verso la bimba.

L’imputata ammette la sua leggerezza, aver accordato fiducia a Giorni, giustificandola con la propria immatura ingenuità, ma negherà sempre di aver saputo o visto qualcosa che le facesse sospettare: e qualche testimonianza, specialmente delle maestre d’asilo, è pur arrivata in suo favore, ma non basterà. Tra primo grado e appello, ne esce una sentenza attenuata sul versante della violenza sessuale, ma che conferma il concorso “anomalo” nell’infanticidio.

Elena Romani è una gran bella ragazza del vercellese, definita “hostess”, con una bambina di quasi due anni, Matilda Borin, avuta da un uomo che non è più al suo fianco, dove invece si trova un nuovo boy friend, Antonino Cangialosi. Il 2 luglio 2005 la bambina viene portata all’ospedale poiché in fin di vita, a causa soprattutto di un violento calcio alla schiena. Le lesioni interne sono irrimediabili e Matilda se ne va. In casa erano presente sia madre che partner, per cui inizierà un rimpallo di responsabilità, che porterà all’assoluzione di lei nei tre gradi di giudizio, mentre Antonino arranca ancora. Viene assolto, nel 2019, in primo grado, ma Elena (nel frattempo madre di altri due figli) non ci sta e promette battaglia.

Il caso risulta opacissimo, non è stato molto pubblicizzato dai media; si conoscono poco fasi, atti e svolgimento delle udienze, dunque ci si chiede, con due adulti e una bambina morta per trauma inflitto nella stessa abitazione, chissà dove si dovrebbe cercare un responsabile.

Siamo nella notte tra il 15 e il 16 maggio 2010, in un residence di Genova, zona Nervi, delegazione quasi rivierasca a vocazione turistica, già decaduta rispetto ai fasti del passato. In camera ci sono la giovane italo/greca Katerina Mathas, dalle incerte attività, un bambino di undici mesi, Alessandro avuto, si dice, da un uomo sposato (qui i “si dice” sono d’obbligo, avendo noi verificato alcune incongruenze). In sua occasionale compagnia c’è Giovanni Antonio Rasero, trentenne broker separato con due figli, esponente della new age di giovanotti rampanti a tutti i costi.

Che la notte sia trascorsa tra ricerca di pusher, sniffate e fumate, nessuno lo ha negato: ma, mentre lei sostiene di essere andata effettivamente in giro per “acquisti” lasciando lui solo con il bambino, ovviamente il broker nega ogni responsabilità e attribuisce a un raptus della indiavolata cattiva madre il rabbioso crimine (Alessandro è stato morso e scagliato contro un muro). E’ un fatto che la Mathas si difenda affermando che, una volta tornata con la roba da consumare, non abbia fatto caso al bimbo, forse sistemato in un cassetto e che i vicini di casa descrivano il piccolo sempre abbandonato in giro, affidato a chi capitava. Alla fine della fiera, per dirla proprio alla genovese, Rasero viene condannato come unico responsabile del delitto, lei prende quattro anni per abbandono di minore, in una circonfusione di esasperata irresponsabilità che ti rimane addosso come se tu stesso avessi, più che ascoltato un processo, partecipato al droga party. Si è detto che la ragazza sia tornata, subito dopo la disgrazia, con il papà di Ale; noi l’abbiamo ritrovata di nuovo madre in un paesino del ponente ligure.

Lorys Stival è un minuto bambino di otto anni, figlio di una coppia unitasi molto giovane, lui camionista, lei per il momento intenta alla cura della famiglia, arricchita da un secondo figlio, con residenza a Santa Croce Camerina, provincia di Ragusa. Mamma Veronica Panarello, cresciuta tra Liguria e Sicilia, arriva da una famiglia a dir poco agitata, crescendo con un padre che non è quello biologico (del che lei soffrirà sempre), descritta instabile, propensa all’anticonservazione, manipolatrice: in pratica emergerebbe che la famiglia d’origine sia stata ben lieta di liberarsene, mollandola adolescente agli amorevoli Stival. Papà Davide, molto preso dal lavoro, forse non si accorge del disagio che bolle in pentola e, dopo la sentenza, avrà parole durissime contro la moglie, ridipinta col senno di poi.

Il 29 novembre 2014 il piccolo sparisce e verrà ritrovato in un fosso nelle campagne. Da spettatori, frastornati dall’immagine della madre affranta consolata dalle forze dell’ordine, mentre siamo ancora intenti a capire, qualche settimana dopo veniamo a sapere che proprio lei viene arrestata, ennesima madre killer.

Notiamo subito, nella solita bufera spettacolare imbastita intorno alla vicenda, che questo è uno dei pochi casi in cui i familiari dell’imputato non provano nemmeno a difenderlo, anzi madre e sorella appaiono ostili, la seconda implacabile.

Nel tempo assistiamo alle solite riprese e ascoltiamo intercettazioni. Veronica modifica la sua versione, avvicinandosi alla narrazione che la vede colpevole, ma compie giravolte destabilizzanti, arrivando a incolparsi di una relazione col suocero, che avrebbe ucciso il nipotino, ma non viene creduta. Qui pure, la giustizia disegna una mamma esaurita e senza sostegno, che si rivolterebbe come una furia contro il bambino un po’ ribelle e non propenso ai doveri scolastici. Ci resta nella mente la performance quasi attoriale della condannata durante gli interrogatori, le sue invettive in aula, forse finalizzate a farsi credere pazza, riuscendovi benissimo.

Agli inizi di quest’anno si è appreso che il medico che effettuò l’autopsia su Lorys è stato arrestato per aver attestato il falso in una pratica di riconoscimento di invalidità, dunque si evidenzia che sorgono dubbi sulle modalità della morte del piccolo Stival: fascette per elettricista o cavo USB? Per caso si dovrà rifare tutto daccapo?

Il 17 agosto 2019 muore a Modica, sempre provincia di Ragusa, Evan Lo Piccolo, di mesi ventuno. Anche questo sventurato infante incappa nella, a questo punto sconsigliabile, combinazione di madre (Letizia Spatola) e compagno di lei (Salvatore Blanco). Evan muore a sua volta di percosse, dopo altri ricoveri per simili cause. Il padre biologico Stefano, nel frattempo trasferitosi a Genova, fa fuoco e fiamme per conoscere la verità, ma finisce nelle curve: l’altro figlio (non suo) di Letizia rivolgerà a lui accuse di maltrattamenti nei suoi riguardi. Un pantano.

Il 2020, vissuto al rallentatore da pandemia, non ci ha però risparmiato misteri e crudeltà, velate però, ancora più delle altre, dall’atmosfera di emergenza che offusca il nostro sguardo già stanco, ragion per cui il web, più ancora di giornali e televisione, s’è avventato sulla strana storia di Viviana Parisi: la bella DJ esperta di sonorità disco di Caronia, nel messinese che, a tutta prima, dopo essere stata speronata mentre era in auto col figlioletto Gioele Mondello di 4 anni, il 3 agosto scorso, scappa per campi, seppellisce il piccolo forse per il rimorso di avergli procurato gravi lesioni e/o la morte e si butta da un traliccio.

Il padre, collega della moglie ( pare entrambi di una certa notorietà nel loro campo) piange e si dispera, ma non abbiamo nemmeno fatto a tempo a inquadrare questa storia oscura, benché svoltasi nel pieno sole della Sicilia estiva, che un mare magnum di osservatori ha sbranato la piccola tela che stavamo mettendo insieme. Attendiamo sviluppi.