«Preeee…»

«Vado io». Santina si precipitò verso l'ingresso, afferrò la cornetta del citofono, la portò all'orecchio e distese le labbra in un sorriso. Sapeva chi era. Dall'altra parte, una voce calda, con tono pacato, cominciò a raccontarle una storia. Una fiaba inventata soltanto per lei.

«Ma questo qua che intenzioni ci ha che ogni sera, da tre anni, si mette a parlare al citofono per una para di ora? Che vuole babbiare? E perché, invece di venire qua, non telefona? Maledetta la… che quel giorno ci ha aperto tua figlia a quello del pane alla porta. Se ci andavi tu ‘dda scimunita non s'innamorava!». Ciccio, il padre di Santina, come al solito borbottava mentre, sprofondato nella sua poltrona di finta pelle, fra una lacrima e l'altra, guardava in tv “Anche i poveri si amano, solo che soffrono di più”, con Llera Carmen Sorella y Palo nella parte della sventurata protagonista.

“Mii... – continuo pensando a mezza voce –, ma ‘sta fimmina brasiliana e proprio bedda! Ma chi ci dunano a manciari ddocu? E dicono che nel terzo mondo c'e la fame! Si vede che mangiare picca fa bene”. Poi guardò sua moglie, Rosa, cinquant'anni, due figli, il seno floscio, gli occhiali spessi e trenta chili di sovrappeso e, mentalmente, cominciò a indirizzarle la solita serie di insulti.

«E’ che Salvino, il ragazzo, e orfano di padre e il telefono a casa non se lo possono permettere. Speriamo che l'onorevole ci trova il posto così si sistema. E poi la madre è una brava persona: fa la baby-sitter ad una signora che abita nel palazzo dove il cugino di Giusy ha la portineria. Diciamo che si conoscono. In ogni caso, l'importante è che i ragazzi si vogliono bene e che lui non si droga», la voce stridula della consorte s'inserì, ignara, fra gli improperi del marito.

«Speriamo, cosi la finiamo co ‘sta storia che facciamo ridere i polli dei vicini» le fece eco Ciccio, fra un'ingiuria e l'altra.

Nel frattempo i due innamorati continuavano a tubare al citofono.

«Mi ami?» domandava lei.

«Ma certo che ti amo. Quante volte te lo devo dire?» rispondeva lui.

«Allora raccontami la favola di lei che poi viene l'industriale e la porta via dalla casa della matrigna» riprendeva lei, attorcigliandosi il filo del citofono fra le dita.

«Te l'ho raccontata già cento volte. Fammi andare a casa che domani mi devo alzare alle cinque per andare a fare il pane e sono già le undici» cercava di tagliare corto lui.

«Va bene, pero prima dammi un bacio».

«Pchk!»

Santina dopo andava a letto e sognava la fiaba che Salvino le aveva raccontato poco prima. E questo accadeva, da tre anni, ogni sera. Lui non era mai venuto meno all'impegno. Freddo, pioggia, malanni suoi e dei familiari. Nulla era mai riuscito a costringerlo a casa e a non presentarsi al suo appuntamento. Ogni volta che Santina ci pensava, sentiva il cuore batterle cosi forte che quasi le squassava il petto.

Alla fine il miracolo era avvenuto. Dopo più di quattro anni, l'onorevole aveva “trovato” un posto alle Poste a Salvino. I due innamorati avevano così potuto «coronare il loro sogno che non si sapeva come andava a finire, poveri giovani», come raccontava la madre di lei alle vicine.

Cerimonia religiosa solenne in una grande chiesa della citta, naturalmente, gli invitati che maledicevano il caldo e i matrimoni celebrati in estate, e lei, bellissima, pelle scura e il seno florido stretto dentro un abito bianchissimo con tredici metri di velo, che finalmente diceva “sì” per sempre al suo lui. Poi l'emozione e le lacrime di tutti, ma anche l'imbarazzo del prete che, guardando nella sua scollatura, per un momento non era stato più in grado di proseguire. Infine, come da copione, il viaggio di nozze negli Stati Uniti per visitare i luoghi dove si muovevano i protagonisti dei film che li avevano fatti spesso sognare.

Ma la vita a due non sempre risulta come la si immagina quando si è ancora fidanzati. E cosi, una sera, dopo una lite più violenta del solito – nella quale erano stati coinvolti, a vario titolo, i parenti di entrambi fino alla settima generazione o su di lì –, Salvino si tirò dietro la porta con l'intenzione, aveva dichiarato, di andarsi a «sfogare da una di “quelle”».

Piuttosto prevedibile la reazione della sposina: scoppiò in lacrime appiccicandosi al telefono per riferire alla madre cosa le aveva fatto quel “mostro”.

Il coniuge di fresca nomina, invece, accortosi di aver dimenticato le chiavi dell'auto a casa, bestemmiando tutti i santi del calendario, senza fare preferenze, diede una manata alla targhetta che recitava: “Fam. Salvato-La Pecorella”.

«Pree!» gracchio il citofono.

«Chi e?» rispose Santina fra le lacrime. All'udirla, Salvino si sentì all'improvviso come preso da una vertigine che lo trascino con la mente a giorni più felici e ormai quasi sepolti. Il tono della voce di lei era lo stesso di quello di qualche anno prima, soltanto un po' increspato dal pianto. E, cosi, dopo qualche minuto di silenzio, il viso incollato al muro, gli occhi chiusi, si abbandonò come un tempo a raccontare con voce calma: «C'era una volta, in un quartiere lontano lontano…»