Una volta, una persona conoscente in preda a un’insana passione romantica, insistette con veemenza: «Non si può applicare la logica su tutto! Prendiamo proprio l’amore; questo sentimento viscerale che si prova per un’altra persona, che attrae e scombussola la vita, e si finisce per fare qualunque cosa senza pensarci. Chiamiamola passione, attrazione fatale, ma quello è! Ed è totalmente irrazionale. La logica non può governare tutto!».

E invece si. Gli ripetevo: «La logica governa ogni cosa!».

L’amore è logico, perché segue gli interessi essenziali dell’umanità: la cooperazione, la solidarietà, l’amicizia, il mutuo soccorso, la condivisione, la complicità, la procreazione, e così via. Senza l’amore l’uomo si estinguerebbe, quindi esso è premessa fondamentale per la sua esistenza ed evoluzione. Per contro non può essere tale se danneggia qualcuno, perché nuocerebbe alle stesse cose che protegge e persegue: l’esistenza e l’evoluzione.

Ne discutemmo per giorni, e alla fine riuscii a convincerla. Ma la sua arguzia mi spiazzò: «Bene, hai ragione. Non è amore»  mi disse,  «Ma visto che posso vantare la premessa del neminem laedere posso anche validamente e logicamente concludere che “il naufragar m’è dolce in questo mare”». Senza rinunciare alla sua passione tossica, provò a concludere che era comunque logico continuare in quel rapporto.

In poche parole, una volta che ebbe compreso per bene i meccanismi della logica, se ne appropriò per formulare questa conclusione postulandola in maniera che apparisse formalmente corretta. E sembrava proprio che lo fosse.

Partiva dalla premessa del neminem laedere, cioè dal brocardo del “non offendere nessuno”, quindi non procurare male ad alcuno seguendo quel suo rapporto tossico che la annullava come persona (non aveva parenti/amici vicini e premurosi che si potessero addolorare o preoccupare), e che al contempo la faceva sentire bene, appagata, dipendente come da una droga il cui male le procurava una masochistica gioia, concludendo con quella impeccabile sintesi che evocava l’Infinito di Leopardi.

Ma questa conclusione certamente affascinante e apparentemente logica, che evoca anche il tipico assioma del “non faccio male a nessuno, quindi sto bene così”, collide spaventosamente con un altro postulato dell’esistenza umana, secondo il quale la vita - al di là della propria libertà individuale - è preziosa e potenzialmente utile alla comunità per gli stessi principi che regolano la necessità di amare. Non sappiamo, infatti, quale valore potremmo esprimere per la collettività se ci integrassimo bene in essa esprimendo il nostro potenziale. E ciò presuppone una vita sana non solo per gli altri (se ci sono e se ci amano) ma soprattutto per sé stessi.

L’autolesionismo non è dunque logico, come non lo è la società non inclusiva che marginalizza i propri individui rendendogli difficile l’espressione del proprio potenziale di vita individuale e collettiva. Quindi anche se un individuo si annulla per effetto di questa marginalizzazione non significa che stia compiendo un’azione logica, ma semplicemente che sta passando da un modello tossico (sociale) a un altro modello tossico e stavolta autolesionista.

Il principio del neminem laedere non è pertanto rispettato, e il suo utilizzo come premessa è stato speculativo, perché nel “non offendere” ci siamo soprattutto noi stessi prima di chiunque altro possa addolorarsi per noi. Così come non può essere valida la decisione - forte della premessa - di poter godere di un male che si sta facendo a se stessi. Si potrebbe, ma quel male, oltre a violare la premessa è un disvalore anche per la società, la quale, magari, ci allontana con la nostra complicità di abbandonare volentieri la lotta. Una lotta che possa provocare perfino l’annientamento personale, ma in tal caso con uno scopo di vita logico che rispetta quelle due premesse fondamentali: esistenza ed evoluzione.

L’essere padroni di sé non giustifica dunque qualunque scelta, dal punto di vista strettamente logico. Anche la propria “inutilità”, che è sempre figlia di un disagio psicologico risolvibile, è concetto insensato perfino nei contesti più gravi e definitivi. E su quest’ultima osservazione vorrei raccontarvi una vecchia storia Zen.

Un giorno l’unico cavallo di un contadino molto povero fuggì via.
I vicini si addolorano, ma il contadino disse: «Il mio cavallo è fuggito. Ma non so se questo sia un bene o un male. Non siate tristi».
Qualche giorno dopo il cavallo tornò in compagnia di uno splendido puledro selvaggio, e i vicini ne furono felici.
Ma il contadino tornò a dire: «Non so se questo puledro sarà un bene o un male. Non rallegriamoci troppo».
Il figlio del contadino, nel tentativo di domare il puledro si ruppe una gamba, e nuovamente i vicini si rattristarono per la malasorte del contadino.
Ma lui, imperterrito: «Non so se la gamba rotta di mio figlio sia un bene o un male».
Intanto il paese entrò in guerra, e avendo la gamba rotta il figlio del contadino non fu chiamato.
Indovinate cosa disse il contadino…

Il controllo degli eventi ci sfugge in qualunque circostanza, quindi è illogico concludere qualunque cosa contraria alla logica dell’esistenza e dell’evoluzione.

La logica è ragionamento corretto attorno a delle premesse precise che ne costituiscono gli assiomi. Non è facile come potrebbe sembrare, ed è normalissimo commettere errori se non si apre completamente la mente a tutte le possibilità che si determinano ad ogni inferenza. Non è infrequente che nei ragionamenti più complessi e rigorosi si scorgano poi errori insidiosi, anche dopo anni.

La logica è anche indipendente dal bene e dal male. Quando la usiamo poniamole sempre la premessa fondamentale dell’etica, se lo scopo è quello di determinare la correttezza di un ragionamento su un qualunque tema del bene.


📸 base foto: Particolare in bassa risoluzione di Aristotele, padre della logica, in “Scuola di Atene”, affresco di Raffaello Sanzio