La dipendenza e correlazione tra razionalità e giurisprudenza dovrebbe essere già per sé talmente evidente da non richiedere discussione alcuna. Quando si prova ad analizzare l’origine del diritto si scopre, più o meno facilmente, come questo sorga come tentativo di mediazione normata tra la violenza e la giustizia per contenere, o por freno, all‘arbitrarietà della forza. Il diritto aggira, o risolve, il conflitto perché circoscrive l’esercizio della forza entro un recinto codificato, id est normativo.
L’elemento essenziale consiste, qui, nel chiedersi come avvenga quest’irreggimentazione della forza entro una cornice normativa. Non è forse la razionalità, ossia una considerazione della realtà quanto più obiettiva possibile e scevra dalle tante nevrosi che affliggono la nostra specie, il fattore determinante nell’ingabbiamento dell’arbitrio e della volontà di potenza? In altre parole: è possibile il diritto al di fuori della razionalità? E che tipo di diritto sarebbe quello escluso dalla razionalità? A quest’ultima domanda è relativamente facile provare a dare risposta: il diritto separato dalla ragione è quello della mera forza, dunque uno pseudodiritto fondato sulla clava e non sull’accordo proveniente da un’ermeneutica accompagnata dalla ratio.
Lo Stato democratico non è un monolite che viene abbattuto tutto d’un tratto. Tanto i fascisti, quanto i nazionalsocialisti ci misero degli anni per smantellare le strutture democratiche ed appropriarsi dello Stato, introducendo nuove codificazioni giuridiche che vanno dal codice Rocco (1930) alle Leggi costituzionali del Reich tedesco (Verfassungsgesetze des Deutschen Reichs) le quali ebbero un periodo di attuazione che accompagnò l’intero regime nazista dal 1933 al 1945. Lo smantellamento della struttura giuridica è stato invece più rapido in Paesi nei quali la tradizione democratica e culturale era debole, distante o quasi inesistente – vedi, ad esempio, il Cile e la presa del potere da parte di Pinochet.
Come avviene questo assalto ai fondamenti giuridici di una società democratica? Vi è l’aspetto evidente della presa di controllo delle strutture politiche ed amministrative dello Stato, dalle sedi giuridiche e dell‘istruzione, fino ai poteri esecutivi il cui obiettivo è la trasformazione delle modalità della socialità attraverso l’imposizione e normalizzazione di un particolare modello di vita teso a determinare una «nuova normalità».
Lo Stato democratico viene allora lentamente smantellato attaccando, in primis, la psiche e la mente dei cittadini, normalizzando e rendendo «legali» comportamenti, decreti e modi di azione e di pensiero che non sono autenticamente «normali», «morali» né «legali» o, quantomeno, non possono dirsi tali in senso democratico ed umanistico.
Questo discorso rende evidente almeno un punto fondamentale: è l’accesso alla mente del cittadino e la trasformazione del senso comune a garantire, in seguito, il controllo sullo Stato e la società. La gravità di questo fatto è stata resa evidente, tra gli altri, anche dal dissidente russo Aleksandr Solzhenitsyn in Arcipelago Gulag (1973), una delle più importanti opere sul terrore di Stato, in cui l’autore si chiede cosa sarebbe successo se la popolazione, alle origini del regime bolscevico, avesse iniziato a resistere attivamente alla violenza arbitraria delle forze di sicurezza dei Soviet: «Come sarebbe stata la situazione se ogni agente della polizia segreta, quando usciva di notte per effettuare un arresto, non fosse stato sicuro di tornare vivo e avesse dovuto dire addio alla sua famiglia?»
Quando, però, la perfidia dei poteri antidemocratici si insidia, subdolamente e gradualmente, non più con dei prelevamenti notturni di dissidenti, ma attraverso apparati di convincimento e manipolazione e raggiunge, così, le coscienze in maniera graduale ed inesorabile, l’opposizione diventa infinitamente più ardua, perché questa è resa possibile attraverso l’analisi razionale della realtà e lo sviluppo di discorsi culturali i quali, attraverso distrazione e sostituzione, vengono perfidamente sottratti all’orizzonte del dibattito. Questa radicale violenza psicologica perpetrata contro il cittadino non risulta immediatamente evidente senza uno studio approfondito delle discipline e degli apparati di manipolazione e propaganda che stravolgono la mente e la psiche del soggetto, partendo dalle teorie di Le Bon sulla Psicologia delle folle (1895), passando per Ivy Lee, Edward Bernays ed i troppi altri persuasori occulti, arrivando fino ai moderni «spin doctor» in agguato dietro la comunicazione mediatica commerciale o politica. Coloro i quali si rendono partecipi, o complici, nella costruzione delle illusioni con cui manipolare le menti, si rendono gravemente colpevoli e, al ritorno della sanità mentale collettiva dalla quale questi hanno sviato, costoro dovranno esser portati a giudizio da una giurisprudenza o da una cultura tornate sotto l’egida della ragione dalle forme umane.
A questo punto si evidenzia, qui, l’ennesimo grande ostacolo: come giungere ad un’analisi razionale democratica quando le sedi preposte a tale compito, analitico o divulgativo, sono le stesse attraverso le quali viene portata avanti la mistificazione e la disinformazione? Come riuscire a trovare la strada quando coloro preposti ad indicarla l’hanno essi stessi smarrita e lavorano, attivamente, per conto di coloro i quali vogliono che questa via non si trovi? Karl Jaspers, nel suo scritto Die Idee der Universität (1923), affermava senza mezzi termini: «Il compito dell’università è la scienza. Ma la ricerca e l’insegnamento della scienza servono alla formazione della vita spirituale come rivelazione della verità». Senza un rapporto attivo con la vita spirituale e la verità, ciò che rimane è, a malapena, una pseudoscienza capace di veicolare nozioni tecniche scevre di contenuti umanizzanti e, dunque, una meccanotecnica massimamente pericolosa per la vita. Al culmine di questa scienza massimamente alienata dalla vita, Julius Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica, esclamerà, conscio di quella terrificante creazione, di esser «diventato morte»: Now I am become Death, the destroyer of worlds...
L’indottrinamento, la manipolazione, la promozione e l’incoraggiamento di uno spirito gregario non favoriscono, poi, neppure la creazione di un senso nazionale democratico, ma riducono la diversità del collettivo ad un’interpretazione politicamente e cognitivamente totalizzante. Alexander Dunlop Lindsay, un interessantissimo professore scozzese ormai scomparso e dimenticato, in The Essentials of Democracy (1929) ha osservato: «La nazionalità (...) ha un legame con la nozione di cultura distintiva (...) quando questa comprensione comune e questo senso di appartenenza non esistono o vengono messi in ombra da altre differenze, una democrazia compiuta non è realmente possibile». Diventa allora evidente come, in un’interpretazione della realtà il cui obiettivo è quello di invertire i criteri della socialità democratica, sia necessario un attacco al significato delle parole e dell’oggettività stessa.
Una tra le caratteristiche precipue del tiranno è proprio quella di porre la società in conflitto con se stessa, sfruttando tali contrasti per i suoi fini politici dittatoriali. I luoghi della socialità vengono, dunque, indirizzati al perseguimento di fini autoritari e la realtà viene sottoposta alla volontà ed all’arbitrio del tiranno.
I principi della legge
La legge deve anche esser razionale, poiché tale fondazione aggira il conflitto. In politica, la razionalità che dirime i conflitti è detta diplomazia, mentre nel diritto essa risiede in quell’ermeneutica tra le parti e la norma. In una società civile, la legge non può e non dev’esser interpretata esclusivamente come quel momento in cui diventa legittima la cesura della decisione giuridica o della forza esecutiva, ma come un insieme di normative determinate dall’accordo etico-morale e garantite dalla razionalità. Introdurre l’irrazionalità nella legge equivale, dunque, a piantarvi i semi del conflitto e della brutalità. Irrazionalità ed ingiustizia sono, nel contesto del diritto, termini interscambiabili ed una legge irrazionale è, fondamentalmente, anche una legge ingiusta la quale si pone in antitesi ad uno ius positivum.
Sostanzialmente, la legge non è giusta solo perché è legge, poiché questa non possiede un’autonomia in quanto norma e basta, ma in quanto codificazione di principi di giustizia, eguaglianza e libertà nei quali la razionalità opera da collante. Le costituzioni democratiche offrono, infatti, dei principi di garanzia ideali attraverso l’impostazione essenziale di una gerarchia delle fonti prioritarie rispetto a quelle legislative. È invece il tiranno colui che intende la legge come autonoma rispetto ad una gerarchia delle fonti e, soprattutto, distante da uguaglianza, giustizia, libertà e razionalità, poiché, svuotandola da tali contenuti essenziali, può elevare i propri decreti a leggi e porre la norma sotto il controllo di volontà ed arbitrio. Quest’ultimo è, infatti, proprio quel tipo di discorso che lascerà dichiarare ai nazisti processati per crimini contro l’umanità di aver soltanto eseguito degli ordini perché la legge lo richiedeva. Una legge la quale non abbia, però, il proprio fondamento in un principio morale universale, non può essere riconosciuta come tale. Su questo punto si potrebbe anche aprire una parentesi sulla pericolosità, anche giuridica, del relativismo sfrenato della nostra epoca.
Quando i decreti emessi da un apparato politico codificano l’ingiustizia, quale alternativa rimane a coloro i quali non riconoscono tale sovvertimento dei principi, se non la resistenza passiva o attiva? Si vede qui come sia proprio la legge ingiusta a determinare la violenza poiché non lascia altro appello se non al principio di una forza contrapposta. La ragione è, invece, quella via attraverso cui avviene, in nome di principi comuni, la conciliazione ermeneutica tra le parti; quel principio di mediazione essenziale posto da Giustiniano come definizione del diritto: Ius est ars boni et aequi.
Gli insulti portati avanti contro la razionalità condivisa sono allora, indirettamente, anche delle offese al diritto, alla libertà ed anche, come osserviamo ancor’oggi, alla pace tra i popoli. La divisione della socialità (divide et impera) serve, poi, e protegge la radicalizzazione totalizzante e monodimensionale imposta attraverso un’ideologia dominante, qualunque questa sia.
A questo punto è qui possibile ricordare la nota massima di Confucio secondo cui «La verità non si discosta dalla natura umana. Se ciò che si considera verità si allontana dalla natura umana, non può essere considerato tale». In tal senso, ogni progetto con cui venga sovvertita la razionalità è già l’inizio di un attacco alla verità, all’impianto della legge e, in ultima analisi, alla socialità egalitaria ed alle libertà fondamentali dell’essere umano.