Israele e la sua guerra senza fine: perché non si tratta più di legittima difesa
Per anni ho sostenuto Israele, convinta che le sue azioni militari fossero dettate dalla necessità di proteggere il proprio popolo da minacce reali come quelle rappresentate da Hamas, un'organizzazione terroristica riconosciuta a livello internazionale. Tuttavia, oggi non posso più chiudere gli occhi di fronte a quello che sta accadendo. Ciò che Israele sta conducendo non può più essere considerato una semplice legittima difesa, ma una campagna di devastazione che si è spinta oltre i limiti dell'umanità, un'azione che ha causato la morte di migliaia di civili, compresi innumerevoli bambini innocenti, donne, anziani e malati. Questo non può più essere giustificato. La legittima difesa è un diritto indiscutibile di qualsiasi Stato, e nessuno mette in dubbio che Israele abbia vissuto episodi di violenza e attacchi che richiedevano una risposta. Ma cosa succede quando la risposta supera ogni proporzione? Quando il numero di vittime civili, in particolare di bambini, diventa così alto da non poter più essere considerato un "danno collaterale" ma piuttosto una tragedia umanitaria? Quello che vediamo oggi è un conflitto che ha perso ogni senso di umanità e proporzione. Sotto la guida di Benjamin Netanyahu, Israele ha adottato una politica sempre più rigida, radicalizzando il conflitto e chiudendo ogni possibile spiraglio di dialogo. Netanyahu, con la sua lunga carriera politica, è riuscito a consolidare una visione di Israele in cui la sicurezza è perseguita non solo con la forza, ma con una politica di dominio, alimentando la paura e usando Hamas come giustificazione per campagne militari devastanti. Ma ciò che risulta evidente è che, a fronte di ogni attacco di Hamas, la risposta israeliana non solo colpisce i bersagli militari, ma devasta intere comunità civili. Gaza, già stretta in un assedio economico e sociale insopportabile, viene distrutta sistematicamente. Ogni ospedale bombardato, ogni scuola rasa al suolo, ogni famiglia strappata via è una ferita che si apre nel cuore dell'umanità.
Criticare questa politica non significa essere contro Israele o, peggio, essere antisemiti. Eppure, troppo spesso, la critica verso le azioni del governo israeliano viene rapidamente etichettata come tale, creando una trappola retorica che evita il confronto. Non dobbiamo cadere in questa semplificazione. Israele, come ogni altro Paese, può e deve essere oggetto di critiche quando le sue azioni violano i diritti umani fondamentali. Non si può ridurre la complessa questione israelo-palestinese a uno scontro tra chi è pro o contro Israele. È necessario andare oltre questa dicotomia, riconoscendo che la politica di Netanyahu, basata sull’espansione degli insediamenti nei territori occupati e sulla repressione violenta, non porta né pace né sicurezza duratura. Le politiche di insediamento sono un altro nodo centrale. Espandere continuamente le colonie nei territori palestinesi non solo è considerato illegale dal diritto internazionale, ma rappresenta una provocazione continua. È un atto che compromette ogni possibilità di pace. Ogni nuovo insediamento, ogni pezzo di terra confiscato, spinge ulteriormente i palestinesi verso la disperazione, alimentando una spirale di violenza da cui sembra impossibile uscire. Netanyahu ha costruito gran parte del suo potere su un discorso di sicurezza che, in realtà, si traduce in oppressione per i palestinesi e in insicurezza perpetua per gli israeliani. La realtà, che oggi si fa sempre più chiara, è che ciò a cui stiamo assistendo va oltre la legittima difesa. Quando un popolo viene costretto a vivere in condizioni disumane, privato delle necessità di base, quando interi quartieri vengono distrutti e la popolazione civile viene intrappolata senza vie di fuga, dobbiamo porci una domanda scomoda: è ancora solo una guerra contro il terrorismo o stiamo assistendo a qualcosa di molto più vicino a un genocidio? Il termine "genocidio" non va usato con leggerezza, ma ciò che sta accadendo in Palestina solleva dubbi legittimi. La sistematica distruzione delle condizioni di vita di un popolo può essere considerata genocidio secondo il diritto internazionale, e non possiamo ignorare questo aspetto.
Non possiamo restare indifferenti. Non possiamo continuare a girare la testa dall'altra parte mentre migliaia di vite vengono spezzate. Dire che Israele ha il diritto di difendersi è un'ovvietà. Ma la domanda più urgente è: difendersi a che prezzo? Quante vite innocenti devono essere sacrificate prima che ci si fermi a riflettere su cosa significhi davvero la sicurezza e la pace? Non c’è pace possibile se si costruisce sulle macerie di città e sui corpi di bambini innocenti.
È arrivato il momento di fare una distinzione chiara tra l'antisemitismo, che è un odio ingiustificato verso un popolo ebraico, e la critica legittima delle politiche di un governo che sta portando avanti una campagna di violenza indiscriminata. Troppo spesso, chi si oppone alle azioni di Israele viene etichettato come antisemita, ma questa è una scorciatoia per evitare il dibattito. Criticare Netanyahu non è antisemita. Chiedere il rispetto dei diritti umani non è antisemita. È un atto di responsabilità e di giustizia. La pace è possibile solo se entrambe le parti vengono riconosciute nella loro dignità e nei loro diritti. Finché la politica israeliana continuerà su questa strada, il conflitto non avrà mai fine. C'è bisogno di una nuova leadership, di un nuovo approccio che metta al centro il dialogo e la convivenza pacifica, non la distruzione e l'annientamento. Criticare Israele non significa condannarlo, ma sperare in un futuro migliore, per tutti. Un futuro in cui la vita umana, indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione, venga rispettata e protetta. L'indifferenza alla sofferenza altrui è una ferita morale che non possiamo permetterci di ignorare. Sostenere Israele non può significare approvare tacitamente la distruzione di vite innocenti. La pace non si costruisce sul sangue di migliaia di civili, e continuare su questa strada rischia di perpetuare una spirale di odio che non potrà mai portare a una soluzione duratura. La mia critica, dunque, non è un attacco a Israele, ma un appello a ritrovare una via di pace, a fermare questo ciclo infinito di violenza che sta distruggendo non solo il popolo palestinese, ma anche l'anima di Israele stessa. Il mondo non può più restare in silenzio.
Per questo, oggi, sento il dovere di alzare la voce e dire che Israele sta sbagliando. E la mia critica non può essere semplicisticamente ridotta all’antisemitismo, perché c’è una differenza profonda tra opporsi a una politica ingiusta e odiare un intero popolo. Criticare chi commette ingiustizie non significa odiare, ma avere il coraggio di sperare in un futuro diverso, in cui il rispetto per la vita umana torni al centro.