Il cosiddetto “overview effect” (letteralmente: effetto della veduta d’insieme) è un vero e proprio cambiamento cognitivo relativo alla sfera della consapevolezza umana che ha coinvolto diversi astronauti e cosmonauti nel corso di intere escursioni spaziali in quanto capace, attraverso l’osservazione del pianeta Terra dall’orbita, di far maturare all’individuo coinvolto un profondo e importante senso di piccolezza nei confronti di sé e del proprio luogo di appartenenza al cospetto dell’immensità universale circostante.

In situazioni di questo tipo, il tutto planetario si trasforma in insignificante nulla rispetto al nuovo metro di inconscio paragone, lasciando apparire la Terra davvero come una sfera appesa a chissà quale fragile filo nel cuore dell’impressionante oscurità globale. A far da contorno, certo, miliardi e miliardi di altre galassie con tutto ciò che esse includono, ma l’annullamento pressoché totale della concezione di spazio e tempo, per come la si conosce, presenta il conto relativamente a ciò che davvero ha importanza tra una quotidianità tutta umanoide e un senso di infinito che, forse, se adeguatamente assimilato, potrebbe davvero cambiare qualcosa nelle vite di chiunque, dalle più inconsapevoli a quelle più desiderose di un riferimento altro, ben oltre il mero dato tangibile.

Consapevole di quanto un assunto di simile portata possa sprigionare in direzione concettuale, a livello tanto filosoficamente artistico quanto concretamente traducibile in elementi di pura realtà, Steven Wilson ne trae ampio spunto per la strutturazione del suo nuovo lavoro in studio The Overview, un dichiarato ritorno alle migliori influenze prog ’70 che tanto hanno influito su lavori precedentemente osannati, sia a nome Porcupine Tree (Fear of a Blank Planet e The Incident in primis) che in veste solista (The Raven That Refuse to Sing su tutti), non scevro, però, di efficaci e necessarie incursioni tra elementi di innovazione (o, almeno, differenziazione) sonora e stilistica che tanto bene hanno fatto a quelli che restano i due lavori migliori della discografia a proprio nome (Hand. Cannot. Erase e The Harmony Codex), con doverosa riserva nei confronti del sempre troppo sottovalutato – se non proprio dimenticato – Unreleased Electronic Music (che invitiamo caldamente a recuperare).

È proprio questo il punto: elementi, non basi portanti per sempre nuove escursioni creativamente sagge; spunti di grande valore emozionale consapevolmente esplorati a fondo ma poi messi da parte in funzione di una pur coinvolgente immersione in fraseggi ritmico-lirici che sanno di già sentito, anche se di grande valore complessivo (non potrebbe essere altrimenti, mai, vista la portata qualitativamente culturale del soggetto in questione).


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