Donald Trump è sbarcato a Riad agitando come suo solito il pugno alzato in aria mentre scendeva dall'Air Force One. Ad attenderlo, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS), partner fedele e, soprattutto, munifico. Non a caso... sul piatto 600 miliardi di dollari in investimenti destinati agli Stati Uniti, una cifra colossale che comprende il più grande accordo di vendita di armi mai registrato tra alleati: quasi 142 miliardi di dollari.
L'incontro ha segnato la prima tappa del tour nel Golfo del presidente USA, che ha per obiettivo quello di rastrellare investimenti, rafforzare alleanze, e – non da ultimo – rilanciare la sua immagine internazionale.
La vendita di armi non è solo una vetrina per l'industria bellica americana, ma il cuore pulsante del patto Trump-MbS. Il mese scorso Washington aveva proposto un pacchetto da 100 miliardi, ma MbS ha rilanciato: un'offerta ben più alta, che copre buona parte della promessa di Trump di attrarre "mille miliardi di dollari" dagli alleati arabi. Trump, da par suo, ha restituito la cortesia con dichiarazioni di questo tenore: «Credo che ci piacciamo molto».
Il viaggio è proseguito con la partecipazione – una prima storica – al vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo. Al centro: sicurezza regionale, nucleare iraniano, e soprattutto Yemen, campo di battaglia trascurato ma sempre attivo. Oggi, sarà la volta del Qatar, dove l'emiro Tamim bin Hamad Al Thani – che addirittura è in procinto di regalare a Trump un Boeing 747 – ha organizzato anche colloqui sulla crisi di Gaza. In ballo ci sarebbero accordi tra i 200 e i 300 miliardi di dollari.
In Israele, il clima è ben diverso. Netanyahu segue con apprensione ogni passo del presidente USA. Il premier israeliano, già alle prese con il controverso piano militare “Carri di Gedeone” su Gaza, è irritato dal mancato inserimento dello Stato ebraico nel tour presidenziale. Tel Aviv teme, a ragione, che l'imprevedibilità di Trump possa portare a mosse non coordinate – o addirittura sgradite.
Per tentare di placare i timori, Trump ha evocato il “sogno” che l'Arabia Saudita aderisca agli Accordi di Abramo. Ma ha ammesso che non accadrà presto: finché Israele continuerà a devastare Gaza e a negare ogni prospettiva di uno Stato palestinese, la normalizzazione resterà fuori portata.
In molti aspettano una dichiarazione forte di Trump su Gaza. Non arriverà. Nessun riconoscimento dell'indipendenza palestinese, al massimo un appello a una tregua temporanea. L'idea sarebbe quella di uno scambio: ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi. Doha spinge per accettare la proposta di Hamas: liberazione totale degli ostaggi e fine della guerra. Ma Israele, complice la pressione dell'ultradestra di governo, è disposta al massimo a una tregua a tempo.
Secondo fonti vicine all'amministrazione USA, sarebbe in discussione una tregua tra i 70 e i 90 giorni, in cambio del rilascio di dieci ostaggi. Un modo per prendere tempo e scongiurare l'imminente operazione di terra israeliana.
Trump, intanto, insiste sul fatto che la sua amministrazione stia lavorando per riportare a casa gli ostaggi e porre fine al conflitto. Ma Netanyahu risponde a muso duro: i negoziati andranno avanti solo sotto il fuoco.
Il tour mediorientale di Trump si sta rivelando un mix ben collaudato di affari e retorica. Armi in cambio di investimenti, promesse vaghe su Gaza, rassicurazioni a Israele e nessuna vera svolta politica. Se tutto andrà bene, Trump potrà tornare a Washington con un piano sponsorizzato dagli arabi per fermare la guerra. Ma lo scenario peggiore – il più probabile – è che non presenti nulla, o che il piano venga respinto da Israele o da Hamas.
In quel caso, tutto tornerà come prima: ostaggi ancora prigionieri, Gaza in fiamme, e Trump già proiettato verso la prossima vetrina.