Campo di patate, campo da calcio, campo elettromagnetico.

La parola campo può avere parecchi significati in base al contesto in cui viene utilizzata e sempre o quasi  è associata a uno spazio fisico, ben delimitato e definito da confini netti , a volte tracciati da righe e staccionate.

Oggi però sono a parlare di un campo impalpabile, mutevole e liquido, un campo senza limiti ma capace al tempo stesso di avvolgere chi vi alberga.

Un teatro che prende forma dentro alle relazioni, un incontro di anime che genera un elemento terzo che non potrebbe esistere se non in presenza di due o più persone, attraverso la condivisione.

Questo campo è il luogo nel quale gli attori che si connettono fra di loro come ballerini di tango argentino mettono in scena uno spettacolo unico, sempre diverso , senza copione e senza possibilità di essere provato prima.

La trama è l’incontro di sguardi e intimità che si fondono e interagiscono in una dimensione fantasmatica ricca di simboli, archetipi e pulsioni; un paradiso a tratti infernale e ultraterreno che si mescola con la realtà più cruda e ruvida in un susseguirsi di domande mai fatte, risposte mai dette e comportamenti che solo in quel palco trovano espressione e motivo di essere.

Perché sono a parlare di campo?

Perché senza nemmeno accorgercene vi siamo costantemente immersi e siamo i protagonisti di un’opera mai vista prima, infiniti atti si susseguono l’uno dopo l’altro, spesso totalmente slegati fra di loro come tanti piccoli frammenti di mosaici diversi uniti in un solo rosone.

Ebbene, in questa messa in scena portiamo tutto il nostro bagaglio di intimità e fantasie, proiettiamo su quel palco  tutti i nostri nodi più profondi e dolorosi, le false credenze e le paranoie.

Questo elemento terzo generato dall'incontro di sguardi e connessioni non può che risultare caotico e popolato dalla nuvola di paure e sofferenze mai risolte, dalle scissioni e dissociazioni mai culminate in un reintegro coeso e armonico delle pluralità del Sé che costituiscono unite e collegata fra loro l’arcipelago della nostra identità. Una fotografia istantanea con tre protagonisti in conflitto che scalpitano per un posto davanti ai riflettori;  ciò che siamo, ciò che vorremmo essere e ciò che ci dicono di dover essere.

L’illusione di mettere in scena uno spettacolo funzionale e appagante si perde nel groviglio di rovi che rotolano sul palco e a tratti spezzano e ostacolano quella connessione cosi generativa che origina il campo.

Ecco ora immaginiamo il nostro mondo relazionale come una fusione di centinaia di campi, dinamici, in continuo fermento, uno dentro l’altro, uno sopra l'altro; ora immaginiamo la nostra identità come un’orchestra fatta di mille strumenti che si alternano l’un l’altro e che solo insieme possono condurre alla melodia paradisiaca impressa nello spartito.

Siamo chiamati a districare quei nodi fantasmatici mai risolti e interferenti, a smascherare quelle false credenze che ostacolano e offuscano le connessioni fra gli attori rendendolo confuse e più fragili. Siamo chiamati ad accogliere tutti questi elementi di disturbo nelle nostre vite come parte integrante della nostra storia ma non come elemento decisivo e dominante il nostro futuro.

Ed infine, ancora una volta, siamo chiamati ad abbandonare piano piano l’illusione di vivere in un Sé unitario  e accettare di essere il frutto di un Sé multiplo ci richiede una negoziazione continua fra esperienze e realtà spesso contraddittorie.

“Senza un tu l’io si svuota.
Senza un noi il tu si inaridisce.
Sordo a se stesso, l’io si calpesta”.