Nella prima metà di ottobre si sono recati a Tel Aviv gli esponenti più alti dell’amministrazione USA: il segretario alla Difesa Austin, il segretario di Stato Blinken e lo stesso presidente Biden. Hanno tutti ribadito la consueta formula del “sostegno incrollabile” e hanno promesso aiuti militari, di intelligence e umanitari.
Questi viaggi hanno però lasciato degli strascichi nocivi all’interno delle strutture governative americane. Non tutti i funzionari (per non parlare dei Congressmen) concordano con la linea assolutista di appoggio incondizionato a Israele. Se già con l’Ucraina erano emersi i dubbi e i ripensamenti di parte del mondo politico, con l’attuale crisi di Gaza una fetta consistente del Dipartimento di Stato non riesce più a tollerare la situazione interna al dicastero.
Come rivelato dagli stessi funzionari in un’inchiesta dell’Huffington Post, vi sarebbe una cappa di omertà e di frustrazione che sta costringendo alle dimissioni anche i veterani dell’ufficio, tra cui Josh Paul. Quest’ultimo ritiene che il suo lavoro di aiuto dello sforzo militare israeliano contro i civili palestinesi sia incompatibile con le sue posizioni morali.
Queste sensazioni sono aggravate da quanto dichiarato da Biden, che si è detto convintamente sionista, e da Blinken, presenti il premier Netanyahu e i ministri israeliani.
Il Segretario USA ha fatto affermazioni comprensibili e accettabili a livello umano, ma molto discutibili su quello diplomatico e politico. Si è infatti dichiarato sostenitore della causa israeliana in quanto ebreo, e poi da rappresentante del governo americano.
In questo modo è ampiamente uscito dalle funzioni di esponente di tutti i cittadini americani, ma si è identificato in una piccola parte di essi e in una nazione straniera. Il dettaglio non è sfuggito a chi vuole un cambio di atteggiamento da parte della Casa Bianca, ormai lanciata su una china discendente molto pericolosa.