Cosa ti è rimasto ancora oggi  di quella esperienza, aver suonato nel duetto storico Mina Battisti?«In quel momento sentivo di aver vinto una battaglia contro un certo pregiudizio accademico nei confronti di chi fa musica. Una battaglia che, insieme ad altre, continuo a combattere».

Contro cosa?«Soprattutto contro un certo provincialismo o monotematicità dettata dai media e subita da parte delle nuove generazioni. Sarò vecchio ma sento che i colleghi della mia epoca avevano più voglia di conoscere la musica in maniera trasversale. Non voglio sostenere che sia bella tutta la musica ma solo che costruendosi una vera cultura musicale si può capire cosa sia bello e cosa brutto. Motivo per cui sono a favore delle identità locali. Per me è una ricchezza sapere che esistano luoghi e gente diversa da come e dove vivo io. Con questo spirito mi sono sempre avvicinato anche alla musica».

Scopo di un musicista dovrebbe essere emozionare: si può insegnare e dunque imparare a emozionare?«No, purtroppo no. Emozionare significa prima aver vissuto esperienze. E senza la gavetta non puoi viverle, non puoi trovare una strada. Ecco perché non mi piacciono i talent italiani, non sento l’emozione autentica. E sono perplesso quando assisto a certi pianti per aver superato selezioni virtuali che spesso non portano a nulla di concreto. Una virtualità figlia di quel provincialismo che combatto».

Progetti futuri?«Continuerò a proporre la musica di Lucio Battisti accompagnato da una piccola orchestra sinfonica di 35 elementi. Stiamo provando il repertorio dal vivo con gli arrangiamenti orchestrali originali delle sue canzoni, dovremmo debuttare a primavera. Sono emozionato all’idea, si chiude un cerchio: sono nato in orchestra e ci ritorno ora in tarda età».