Matteo Negri e le aporie dell'arte
“Qual è lo scopo del gioco?”. È la prima domanda che mi sono posta osservando i quadri-scultura di Matteo Negri, opere che vivono infatti già nella loro categorizzazione di una presunta ambiguità semantica e di segno. E non solo per l'utilizzo che egli fa dei famosi mattoncini da costruzione, proponendoli con proporzioni, materia e colori differenti dal comune immaginario ma soprattutto rinominandoli per assonanza e guidando lo spettatore in riflessioni altre: il gioco è il continuo scambio di senso, l'alternanza di materiali, il celare in forme conosciute e nei colori ludici e lucidi del pop la forte matrice concettuale che da Duchamp in avanti nessun artista contemporaneo può più trascurare. Matteo Negri è nato negli anni Ottanta e il mondo che ha fatto parte della sua infanzia milanese è ancora un mondo colorato, in espansione, dove il pop e la street art sono ormai radicate nell'abituale skyline visivo mentre l'edonismo reaganiano regala ottimismi.
Prima però dell'analisi formale delle opere, del colore e del modo in cui l'artista tratta la superficie, voglio soffermarmi sui concetti di ironia e di gioco. Spettacolarizzare l'opera d'arte con allestimenti integrati, dialoganti e multimediali -come spero si possa cogliere qui- permette a Matteo Negri di condurre semanticamente il gioco su due livelli: intrinseco - e si parla allora più propriamente di ironia - ed estrinseco, inerente al dialogo dell'opera con l'ambiente e lo spettatore. Alluminio, vetro, superfici lucide e specchianti consentono di andare oltre la visione classica e unilaterale dell’opera coinvolgendo lo spettatore in una dimensione inizialmente ludica.
Il rapporto arte-gioco interessa da sempre filosofi e pedagogisti, da Kant nella Critica del giudizio a Schiller, che nelle Lettere sull'educazione estetica dell'uomo sostiene come l'istinto del gioco sia addirittura fondamento dell'arte. È però del 1938 con l'Homo Ludens di Huizinga la teoria di una civiltà in salutare fuga dalla realtà grazie alla sfera privilegiata del gioco, che affrancato come l'arte dal fine produttivo immediato, è quindi in grado di suscitare quelle emozioni che stimolano anche a livello simbolico lo sviluppo intellettuale. Gioco e opera d'arte dunque sono media a-specifici e a-funzionali di sensazioni, provate dall'artista/giocatore e raccolte o diversamente suscitate nello spettatore sino a farlo divenire giocatore anch'esso. Inevitabile dunque che alcuni artisti contemporanei abbiano manifestato attitudine al gioco, unendo momento creativo e invenzione ludica, fantastico e immaginario, sorpresa e piacere. Una stagione in arte di cui forse si perde traccia nella notte dei tempi -i primi graffiti?- ma che per certi versi iniziata in era moderna con il Futurismo, codificata dal Dada, viene affermata pienamente dal Pop, dagli street artist.
Questo cambio di prospettiva rende l'arte qualcosa di coinvolgente, interessante e improrogabile nel corso dell'esistenza umana, una tappa gnoseologica imprescindibile, esattamente come il gioco lo è per il bambino. Vediamo ora come queste riflessioni si integrino al fare estetico di Matteo Negri.
Fondamento comune alla pluralità della sua ricerca è sicuramente l'attribuire un senso differente a forme di per sé conosciute e appartenenti alla comune esperienza. Questa attribuzione di senso “altro” rappresenta una sorta di vox media, con cui l'artista mantiene l'equidistanza tra oggetto reale, oggetto traslitterato e osservatore permettendo dunque un continuo gioco delle parti. L'esempio più eclatante è sicuramente la serie L'ego, dove il classico gioco di costruzioni viene declinato in tetris estremamente coinvolgenti per colore e sinuosità delle forme, ma che già con l'indicazione del nome trasformato per assonanza in altro, apre una riflessione sul senso dell'essere, sull'io e sulla sua necessità di relazione, in aperta critica al contemporaneo ed egoistico solipsismo. E se da una parte l'occhio legge la possibilità di costruire, dall'altra la mente si confronta con l'antitesi della costruzione, il labirinto, che con le sue connessioni solo simulate non crea lo spazio, lo distrugge piuttosto, o meglio lo frammenta in un andirivieni continuo.
Uso di calembour, utilizzo iperbolico dell'oggetto (alla Oldenburg per intenderci) e sue collocazioni improbabili inoltre sono topoi classici del pop, in grado di spostare l'attenzione dello spettatore dalla sua originale destinazione d'uso al ruolo di icona dall'irresistibile fascinazione estetica.
E quindi alla fine qual è lo scopo del gioco?
>Affascinare con i colori del pop ma liberi dal caos delle emozioni, anzi ordinati per schemi dalla logica dei complementari? Farci percorrere strade interrotte, moltiplicare i volumi, duplicare e capovolgere lo spazio esterno con superfici specchianti, disorientarci e chiamarci dentro per farci invece riflettere sul “fuori” dove ogni giorno siamo collocati? Forse lo scopo del gioco è “semplicemente” il gioco dell'arte e la speranza che essa possa aiutarci a superare le aporie dell'esistenza, o almeno a sopportarle, riportandoci anche solo per un minuto alla meraviglia del bambino. Perché è l'infanzia il tempo del mito.