Dalla Libia l’eco brutale della violenza sulle donne e delle torture sui profughi
Le testimonianze delle donne che sono riuscite ad arrivare in Italia rinchiuse per mesi nei campi profughi della Libia sono raccapriccianti. Stuprate, violentate senza remore dai miliziani libici, persino in stato di gravidanza e sotto gli occhi dei loro figli più piccoli, una bestialità incontrollata, esercitata anche nei confronti di bambine non ancora adolescenti. Tutto questo in stato di sovraffollamento nei campi che sarebbe meglio definire lagher, corpi ammucchiati gli uni su gli altri, stipati, prigionieri con un tozzo di pane e pochissima acqua, soggetti al continuo sfruttamento di mansioni servili sotto l’infernale paura delle armi puntate alle tempie. Il numero di profughi è cresciuto in maniera esponenziale in pochissimo tempo, in questi luoghi orribili sono transitati da circa 4.400mila a 10 mila soggetti da marzo a luglio.
E’ ben noto come le armi possano diventare uno strumento che esalta fino al delirio di onnipotenza. Adottate dal colonnello Gheddafi all’inizio del suo colpo di Stato, posso scrivere una testimonianza diretta, ricordando che alla fine degli anni sessanta (1969) mio padre, che dirigeva il deposito Eni/Agip a Bengasi, fu minacciato con le armi dallo stesso colonnello che gli ordinò di abbandonare immediatamente la Libia e di portare via con sé la famiglia, paura e rappresaglie ci fecero fare le valigie – insieme ad altri italiani considerati sfruttatori dei loro territori – in tempi brevissimi.
La violenza sugli esseri umani, il traffico di armi, il commercio del petrolio
L’Eni, in continuità fra la prima e la seconda repubblica, per l’ente nazionale idrocarburi non fa differenza, in Libia produce quasi 400mila barili di petrolio al giorno, la francese Total nel 2017 si fermava ad appena 31mila, meno di un decimo rispetto alla rivale italiana: la geopolitica vede da una parte la capitale libica controllata e guidata dal primo ministro appoggiato dall’ONU e sostenuto dall’Italia Fayez Al Serraj, dall’altra gli attacchi del suo principale avversario il generale Khalifa Haftar, controllore della Libia orientale appoggiato dalla Francia.
Anche se la controfigura rimane la Farnesina e con lei i ministri che girano a ruota nei governi di turno, è chiaro che il soggetto -chiave che tratta con la Libia è l’Eni, con il suo sottobosco di commesse, giacimenti, piattaforme di estrazione, risorse minerarie. Per spiegare meglio la questione, la Libia detiene il bene primario ma, essendo priva di tecnica e strumentazioni necessarie per produrlo e trasformarlo in ricchezza, deve trattare con coloro i quali considera i suoi “colonizzatori”. Spesso messi a tacere con una “partita d’armi” (mancia per gli eserciti di disperati ), gli arabi diplomatici e traditori, qualunquisti negli affari, hanno patteggiato con le nazioni “utili”, finanziando persino le campagne politiche di cui alcuni leader avevano bisogno, un losco e insabbiato mercanteggiare che, anche per una serie di questioni economiche e sociali concomitanti, ha portato la questione internazionale alle estreme conseguenze.
Il paradosso libico
Il paradosso consiste soprattutto nel fatto che la Libia, pur essendo uno dei paesi più ricchi del mondo per il peso della sua potenza energetica, con meno di 6 milioni di abitanti che potrebbero raggiungere i livelli di benessere della Norvegia, è rimasto da cinquant’anni un paese sottosviluppato: devono usare generatori di corrente per l’elettricità e, se vogliono l’acqua calda, scaldarla al sole. I pochi che decidono di studiare devono andare all’estero, l’unica figlia di Gheddafi che ha conseguito la laurea in legge a Parigi, è stata la figlia femmina, indomabile avvocato difensore del padre e dei sette fratelli nelle questioni internazionali.
La Libia, grande 11 volte l’Italia, è rimasta ferma, insabbiata nel dilemma religione-innovazione, la maggior parte vive sulle coste che si affacciano sul Mediterraneo, all’interno solo lo sconfinato deserto di sabbia che ospita piccole comunità. Per tutti, gente della costa e dell’entroterra, prevale ancora la tribù come organizzazione pseudo-sociale, la guerra e la guerriglia come principio esistenziale; si aggiunga che oggi tutti - anche sotto le tende - sono collegati al resto del mondo con le antenne paraboliche, i media, i social, la tecnologia, in molti casi dolce illusione di relazione e contatto con l’occidente, in altri triste paragone di confronto per quanto riguarda progresso e benessere.
Per concludere oggi la Libia vive in uno stato di frustrazione dato dalla consapevolezza di essere uno dei paesi più ricchi del pianeta e non poter godere del benessere sognato, come invece ne godono quelli che hanno usato le trivelle: animi infervorati dal gusto di tenere in mano le armi per far sentire al mondo l’eco della loro potenza, la brutalità animalesca sulle donne nei campi profughi, sono soltanto panacea della follia, la soddisfazione nel torturare uomini, donne, bambini, nell’insano giogo di staffetta alle porte dell’occidente, è una complicata questione di idrocarburi che si intreccia con le armi, oso pensare a qualcosa di più che manovra le file di combattenti da un luogo sconosciuto…