Per la strage di via D’Amelio, nonostante siano trascorsi trent’anni, al pari di tante storie di mafia, si conosce l’epilogo, ma si ignorano ancora la verità e i mandanti. In via D’Amelio sono morti Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Tanti sono i dubbi e gli interrogativi su quella strage e i ragazzi del Gruppo Agesci di Roma nell’incontro del 29 giugno hanno voluto riproporre le domande di Fiammetta Borsellino al criminologo Vincenzo Musacchio. È venuta fuori la seguente intervista.
Professore, prima di cominciare volevamo chiederle perché secondo lei nessuno fino ad ora ha risposto alle domande della figlia minore di Paolo Borsellino?
Perché si dovrebbero dare risposte scomode e spiacevoli che presupporrebbero, per alcuni soggetti, anche ammissioni di colpevolezza.
Incominciamo:
1. Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa Nostra?
Posso ipotizzare, con margini di oggettivo riscontro (arrivo tritolo a Palermo e omissione nel provvedere al divieto di parcheggio nella zona adiacente l’abitazione della mamma di Borsellino), che chi ha ucciso Giovanni Falcone volesse anche la morte di Paolo Borsellino custode di molti fatti a conoscenza del suo collega fraterno. Entrambi i magistrati sono stati mandati al “macello” perché isolati e abbandonati da tutti, in primis, da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerli ad ogni costo.
2. Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre ’94).
Rispondo con le parole del procuratore capo di Caltanissetta che parla di un "gigantesco depistaggio" sulla strage di Via D'Amelio e tiene a sottolineare che la sua Procura fu "unita sulle conclusioni" nel processo sul depistaggio. E aggiunge: "non si tratta di una frattura rispetto al passato ma di una lenta evoluzione che ci porta ad affermare la sussistenza dell'aggravante di mafia". "I plurimi e gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze, delle cointeressenze di alto livello di Cosa nostra". E parlando dell'ex pentito Vincenzo Scarantino dice: "tutti sapevano alla Guadagna che Scarantino era un delinquente di serie C".
3. Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pubblico ministero allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?
Non preservare la scena del crimine fu un gravissimo errore investigativo. Doloso o colposo? Spero che su questo prima o poi si faccia chiarezza e chi ha sbagliato paghi. Sulle versioni contraddittorie di Ayala non posso esprimermi perché non conosco gli atti processuali e non so cosa abbia espressamente detto a verbale fono registrato. In generale possiamo affermare che non scatta automaticamente la condanna per falsa testimonianza sulla base del contrasto tra le dichiarazioni rese in dibattimento e quelle rese nel corso delle indagini preliminari. Le dichiarazioni contrastanti rese nel processo costituiscono falsa testimonianza solamente se si accompagnano a menzogne e comportamenti che rendono manifesta l’intenzione di ingannare il giudice. Non spetta a me naturalmente verificare se la regola generale si potesse applicare al caso specifico.
4. Perché i pubblici ministeri di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?
Non posso sindacare l’operato di un magistrato, ma posso dire che se fossi stato io al posto degli inquirenti avrei interrogato Giammanco e gli avrei posto esattamente le domande che pone Fiammetta. Giammanco impedisce a Borsellino di indagare su Palermo. Perché? Tace sulla nota con cui lo avevano informato sull’arrivo dell’esplosivo per un attentato. Perché? E Borsellino – ci riferisce il tenente Canale – era certo che il procuratore di Palermo sarebbe stato arrestato prima della fine dell’estate. Nonostante tutto questo il procuratore di Caltanissetta Tinebra e l'aggiunto Giordano non ritengono utile interrogarlo. Perché?
5. Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pubblici ministeri di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?
Su questo mi sento di dire che fu un errore molto grave perché sicuramente Borsellino avrebbe potuto raccontare fatti di rilievo penale e dopo la strage di Capaci un magistrato attento e scrupoloso avrebbe dovuto ascoltarlo nel più breve tempo possibile e non aspettare tutti quei giorni. Borsellino fu ucciso ventiquattrore prima di parlare dell'omicidio Falcone con la procura di Caltanissetta. Sono convinto che avrebbe rivelato al procuratore Tinebra le confidenze dell'amico fraterno ucciso dalla mafia, se non persino i nomi dei probabili mandanti.
6. Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?
È una domanda alla quale non posso rispondere, tuttavia, posso dire che se esistesse qualcosa sarebbe il momento di tirarla fuori e rendere verità e giustizia ai tanti morti in quelle stragi.
7. Perché i pubblici ministeri di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati.
Se corrispondesse al vero siamo di fronte ad un altro gravissimo errore e ad una omissione, a mio parere, imperdonabile che potrebbe, se riscontrato, integrare anche fatti di rilievo penale. Il confronto andava fatto perché verteva fra persone già esaminate o interrogate e sussisteva disaccordo fra esse su fatti e circostanze importanti. Nel caso di specie, in base a quanto è dato conoscere, il disaccordo riguardava prova centrali della vicenda per cui il processo era in corso.
8. Perché i pubblici ministeri di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?
In un simile caso si può ipotizzare l’omessa ricerca di adeguati riscontri. Esistevano delle linee guida funzionali al vaglio delle deposizioni dei collaboratori, peraltro, elaborate anche da Giovanni Falcone. In casi simili, la valutazione da parte del magistrato non può prescindere da un esame accurato in ordine all’attendibilità del singolo dichiarante. Solo una preliminare delibazione di questo tipo avrebbe costituito il logico presupposto di una valida affidabilità.
9. Perché il pubblico ministero Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al pubblico ministero Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?
Domanda alla quale naturalmente dovrebbe rispondere la diretta interessata. Posso solo dire che se un collega magistrato solleva dei dubbi e li espone ad un altro suo collega, perlomeno dovrebbe esserci un confronto costruttivo e analitico sui fatti che forse avrebbe potuto portare anche a soluzioni diverse.
10. Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i p.m. non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?
Tutti errori gravissimi che se evitati avrebbero portato a soluzioni diverse e svelato subito la inattendibilità di Scarantino. Ci poniamo sempre la stessa domanda: dolo o colpa?
11. Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?
In una simile circostanza si denota una palese negligenza. Simili verbali non possono assolutamente essere annotati o sovrascritti. In essi deve sussistere chiarezza e nitidezza.
12. Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pubblici ministeri Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?
Questa è una domanda alla quale possono rispondere solo i diretti interessati. Oggi sono accusati di calunnia aggravata tre poliziotti. Mi sembra troppo poco. In un depistaggio di così ampia portata e dimensione non possono essere coinvolti soltanto tre uomini appartenenti alle forze dell’ordine. Secondo la procura di Caltanissetta tuttavia sarebbero loro che avrebbero tentato di indurre Scarantino a dire il falso. Quelle pressioni contribuirono a depistare le prime indagini sulla strage di Paolo Borsellino e dei cinque uomini della scorta. Un danno alle indagini irreparabile.
13. Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente?
In tal caso siamo di fronte ad una palese e gravissima violazione di legge. Non è ammissibile e totalmente fuori da qualsiasi consuetudine che una persona che già collaborava con la giustizia venisse addirittura interrogata dalla polizia giudiziaria e non affidata al Servizio centrale di protezione come tassativamente previsto dalla legge.
Chiudiamo con un ultima domanda. Avremo prima o poi la verità sulle stragi di Via d’Amelio e di Capaci?
Non vorrei chiudere con un messaggio pessimistico, ma ritengo che più passi il tempo è più diventerà difficile accertare le responsabilità in una vicenda di per sé assai difficile e complessa da ricostruire in special modo dopo depistaggi mai visti prima in una democrazia evoluta come dovrebbe essere la nostra.
Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.