In Turchia, dopo il fallito colpo stato del 15 luglio, si fa sempre più dura la reazione del regime contro ogni sospetta opposizione. Bersaglio preferito del presidente Erdogan sono soprattutto i media.
Ieri il governo turco ha emanato un decreto in cui viene ordinata la chiusura di 45 quotidiani e 16 emittenti televisive.
Nel documento pubblicato sull'equivalente della nostra Gazzetta Ufficiale, è prevista anche la chiusura di 23 emittenti radiofoniche, 29 case editrici, 15 periodici e 3 agenzie di stampa.
Al momento non sono stati ancora ufficialmente resi noti i nomi, tuttavia, secondo quanto riferito dalla CNN turca, il provvedimento di chiusura riguarderebbe, fra gli altri, il quotidiano di opposizione "Taraf", l'emittente pro-curda IMC TV e l'agenzia di stampa "Cihan".
Nei giorni scorsi era stato chiusa una rivista satirica e la mano di Erdogan si era fatta sentire anche su molti siti web.
Pressioni vengono esercitate anche sui giornalisti stranieri presenti nel paese, costretti a chiedere il rinnovo del loro accredito, pena l'espulsione.
Nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe, il governo turco aveva già ordinato l'arresto di numerosi giornalisti considerati critici nei confronti del regime. Ieri è stato diramato un mandato di cattura per altri 47 di loro, tutti ex-dipendenti del quotidiano "Zaman", attualmente in amministrazione controllata.
Sempre nella giornata di ieri, fonti governative riferiscono di altri 1.684 militari congedati con disonore, a seguito dello loro partecipazione al colpo di stato, fra cui 149 generali e ammiragli. Sono 15.000 le persone arrestate dopo il 15 luglio, 8.000 di queste sono in attesa di processo.
Attualmente in Turchia vige lo stato di emergenza. Questo consente ad Erdogan di governare mediante la semplice emanazione di decreti, di sospendere o limitare diritti fondamentali, quali la libertà di stampa e la libertà di associazione e riunione. E il presidente turco ne sta ampiamente approfittando, mentre dall'Europa si leva solo qualche tenue voce di protesta, nel timore che possa saltare l'accordo sui migranti.