Costituzione e agende politiche: lavorare è vivere
Apriamo questo terzo appuntamento un po’ più lungo degli altri con la leggerezza di una famosa domanda retorica che riecheggia spesso nel sottolineare impegni eccessivi o troppo gravosi: «Vivere per lavorare o lavorare per vivere?». Parrebbe più giusto “lavorare per vivere”, ma in realtà non è affatto più giusto o equilibrato del “vivere per lavorare”.
Il messaggio autentico che ci giunge dalla Costituzione lo abbiamo già osservato:
- la Repubblica non è fondata sul denaro o sul compenso che deriva dal lavoro
Ma sul lavoro! E il lavoro è realizzazione personale, partecipazione, altruismo, sviluppo della società; e si svolge manualmente, mentalmente, moralmente, o in qualunque altra forma possibile. Dunque lavorare e vivere sono così strettamente legati che possiamo ragionevolmente affermare che “lavorare è vivere”. E viceversa. Inoltre, come il vivere è un fatto positivo, anche il lavoro deve esplicare un fine esclusivamente positivo (si noti che anche il criminale lavora, ma rappresenta un chiaro disvalore per la società, ed è pertanto un “non lavoratore” secondo i canoni costituzionali).
Ovviamente le cose non stanno così perché ce lo dice solo la Costituzione. Dell’occupazione, attività di vita umana, potremmo anche discutere in termini più ampi e filosofici, scoprendo che la nostra Carta ha sostanzialmente centrato l’obiettivo: le conclusioni sarebbero infatti identiche.
Tuttavia, abbiamo già osservato che il diritto fondamentale alla libertà occupazionale trova l’ostacolo nella necessaria retribuzione. I costituenti si sono occupati di una sola forma espressiva del lavoro, ossia quella che consente di ottenere in cambio un compenso: sia come lavoratori dipendenti, sia come autonomi e imprenditori. Se ne sono occupati perché quest’aspetto era già coperto da ottimi punti di riferimento storici ed empirici, fissando così altri diritti e doveri tra le norme costituzionali. Sarebbe stato complicato fissare norme anche sul lavoro non retribuito o non retribuibile, risultando ad oggi solo come un diritto fondamentale quasi impossibile da esercitare.
Abbiamo anche detto – non lo dimentichiamo – che la Costituzione è un documento che deve suscitare saggezza e lungimiranza. La nostra Carta è indubbiamente ispirata sotto questo profilo; e se consideriamo che i primi 12 articoli che fondano i diritti in questione sono inviolabili, e dunque non possono mai essere modificati in peius (peggiorandoli o limitandoli, eg: attraverso una legge di revisione costituzionale – mentre è possibile ampliarli e specificare), comprendiamo che il lavoro prioritario dei costituenti è stato quello di trovare formule aperte al futuro e fissare diritti anche non immediatamente disciplinabili. Ma che rappresentano precisi obblighi per lo Stato.
Per quest’ovvia ragione troviamo solo l’importante art. 36 Cost. che regolamenta e tutela perlomeno l’occupazione retribuibile, caposaldo dell’economia che fa circolare il denaro attraverso produzione e consumi, e non già di quella dove il denaro non circola, o dove ne circola poco, come l’economia del risparmio, della convenienza, dell’opportunità, dell’educazione e formazione, dell’assistenza, e via discorrendo.
Lavorare è vivere, è vero, ma non possiamo ignorare le frizioni che si vengono a creare tra diritti fissati (libertà occupazionale, iniziativa economica) e difficili da esercitare, e i problemi legati anche alla congruenza dei compensi stessi per i diritti già esercitabili (occupazione salariata).
I costituenti si interessarono a risolvere subito qualche problema, e probabilmente centrarono anche i problemi “satellite” che riguardano proprio quei lavori non retribuibili. Vediamo come.
Furono esaminati con buono scrupolo i problemi connessi all’inabilità al lavoro e alla disoccupazione involontaria. Attraverso l’art. 38 Cost. si è stabilito che gli inabili hanno il diritto ad essere mantenuti dallo Stato (comma 1); mentre per i disoccupati involontari, ossia per cause indipendenti dalla loro volontà (oppure per infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia) lo Stato deve garantire i mezzi di sostentamento necessari alle loro esigenze di vita (comma 2).
Due formule che esprimo il medesimo concetto: farsi carico di chi non è retribuito per cause a lui non imputabili. E se non fosse già chiaro per sé, ci arriviamo anche attraverso uno dei più preziosi testi dell’epoca “La Costituzione, ill. con i lavori preparatori, Falzone-Palermo-Cosentino, Camera dei Deputati, 28/04/1949” (in breve: Cost.I.CD.1949), apprendiamo la sintesi dei lavori dell’A.C. (Assemblea Costituente) su questo art. 38:
Il principio fondamentale affermato in quest'articolo è che ogni cittadino, «pel fatto stesso che esiste e vive, ha diritto di essere messo in condizione di poter far fronte alle minime esigenze della vita», e queste possono essere soddisfatte «attraverso l'obbligo che incombe alla collettività, quando il cittadino, indipendentemente dalla sua volontà, non sia in condizione, o per una crisi sociale, o per cause fisiche, intellettuali o psichiche, di lavorare» (3. Sc., pag. 21)
(pag. 81, Cost.I.CD.1949).
Questo è il concetto dell’assistenza – proseguono i relatori – che deve esser tenuto distinto da quello di previdenza. Ci fu opposizione da parte dell’on. Mazzei (partito repubblicano) il quale riteneva “stranissimo” (sic!) questo diritto e la conseguente responsabilità dello Stato. Critiche vennero anche da altre parti, quando si trattò di ratificare il quarto comma dell’art. 38 che sanciva l’obbligo dello Stato a provvedere ai mezzi di sostentamento necessari attraverso istituti o organi propri, come oggi è l’INPS. Il relatore Ghidini non accettò proposte alternative, peraltro poi respinte in sede di votazione, ribadendo:
«la Commissione ha creduto di porre questo obbligo (dello Stato) del mantenimento, il quale potrà essere ridotto anche al puro necessario, appunto perché si tratta del diritto alla vita, del diritto fondamentale, di un bisogno insopprimibile».
Il cerchio si chiude.
A voler anticipare qualche conclusione, qui potremmo già dire che l’abolizione del Reddito di Cittadinanza per gli “occupabili” è chiaramente incostituzionale.
A noi interessa principalmente portare avanti il discorso, che continua a rivelarci delle cose davvero interessanti e nemmeno minimamente sfiorate negli ampollosi dibattiti di sublime levatura intellettuale, tanto nei salotti della tv, quanto presso gli scranni dei palazzi, dove l’esercizio dialettico dei nostri politicanti è ormai anni luce distante dal mero raziocinio, figurarsi se può lambire i livelli che furono raggiunti dall’Assemblea Costituente.
Verrebbe da dire: servono per forza gli anni bui come nel nazi-fascismo per ispirare le menti e indurle a ragionare, o è sufficiente usarla, questa mente, anche in tempi di relativa pace?
Quanto fin qui accertato obbliga ora a porci alcune domande che chiariscano meglio le condizioni dell’inabilità e della disoccupazione involontaria, unitamente ai rimedi costituzionalmente previsti.
Ad eccezione dei malati psichici gravi e delle persone in stato vegetativo, non esistono persone inabili al lavoro nel senso rigoroso e assoluto del termine. In effetti questo lo avverte anche l’art. 38 in esame, giacché al terzo comma ci spiega: «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale». Il dettato rispetta quanto già previsto agli artt. 1 e 4 sulla libertà occupazionale, rendendo palese il fatto che tutti siamo capaci a fare qualcosa, seppur con qualunque nostro limite fisico o mentale, e si ha indubbiamente voglia di esprimersi in quella cosa. L’informazione ulteriore che ci fornisce il 4° comma dell’art. 38 è quella di raccordarsi anche all’art. 3, che se ricordate obbliga lo stato a rimuovere gli ostacoli che impediscono al cittadino di esprimersi e partecipare alla vita del paese.
Dunque lo Stato non è soltanto obbligato a mantenere il cittadino inabile al lavoro, ma ha anche l’obbligo, e direi l’interesse, a fare in modo che quel cittadino diventi produttivo nel sistema economico vigente. Seppur nel rispetto dell’art. 2, non potendo lo Stato obbligare il cittadino a formarsi e operare con un sistema che esula dalle proprie possibilità, abilità e talenti, laddove egli potrebbe esprimersi e favorire altre economie a cui lo Stato, però, oggi non provvede limitando di fatto anche la libertà occupazionale. Questo minerebbe l’integrità psicofisica del cittadino che è prioritaria alla sua eventuale produttività in un modello economico libero. Spetta dunque al cittadino inabile la scelta di essere mantenuto, continuando ad esercitare – ad esempio – un talento poco o per nulla produttivo nel sistema economico capitalista (questa è la prima volta che introduco il termine “capitalismo” in questa serie di articoli, per iniziare a sintetizzare in una parola l’unico regime economico in cui lo Stato attualmente prospera).
Il principio di ragionevolezza non è naturalmente violato. Al contrario, si violerebbe imponendo al cittadino di astrarsi dai diritti nitidi a lui garantiti dalla Costituzione e obbedire unicamente a principi di economia non codificati e liberamente scelti dal legislatore. E questa libertà si arresta laddove si minano, appunto, i diritti inviolabili dei cittadini.
Contigui agli inabili sono i disoccupati. I costituenti non ne fecero una vera e netta distinzione, tanto in sede di discussione e chiarimenti, che hanno portato a formulare quella potente dichiarazione finale sull’assistenza di Stato cui all’art. 38 (ut supra: «...si tratta del diritto alla vita, del diritto fondamentale, di un bisogno insopprimibile...»), quanto alle previsione di formare e avviare professionalmente anche gli inabili. Per i disoccupati, il diritto alla formazione ed elevazione professionale (rectius: riqualificazione) è sancito dall’art. 35, secondo comma.
Non si fece tale distinzione perché appare ovvia: mentre l’inabile è colui che non è mai stato occupato in attività a compenso, per le ragioni che abbiamo visto poco sopra, il disoccupato è invece colui che ha fruito di compensi in qualcuna delle attività che l’hanno occupato in tal senso.
Rebus sic standibus: i termini “disoccupato” e “inabile” sono ordinati unicamente a definire una condizione di persona non retribuita dall’attività che egli sta esercitando. E per tale condizione lo Stato si obbliga al sostentamento dei mezzi (economici o naturali) per garantirgli una vita dignitosa, e si obbliga altresì alla sua formazione e a rimuovere la condizione (d’inabilità o disoccupazione) affinché, se possibile, si possa integrare “anche” nell’unico tessuto produttivo attualmente vantaggioso per lo Stato, ossia il modello capitalista.
Non esseno l’inabile e il disoccupato necessariamente “non lavoratori”, quell’”anche” serve solo a precisare il perimetro d’interesse per lo Stato attuale. Forse è anche l’ora di definire chi è costui, ossia il “non lavoratore”.
Se lavorare=vivere, acclarata ormai l’ampiezza del termine, il non lavoratore sarebbe purtroppo simile a un vegetale. Il non lavorare (rectius: mancanza di voglia o incentivo) originerebbe da condizioni estremamente circoscritte:
- depressione e malessere psicologico (un motivo dell’ozio);
- crimine e formazione deviata dell’individuo (motivi di emarginazione e disintegrazione sociale). Tra la “formazione deviata” ha notevole peso la mancata istruzione di base e la responsabilizzazione civica in concorso con l’assenza di stimoli nello sviluppo dei talenti naturali.
Per essere a tutti gli effetti dei “non lavoratori” occorre, inoltre, che ci si alzi la mattina e si vada a letto la sera senza aver contribuito a produrre nulla: alcun bene materiale, servizio o valore morale, di utilità sociale per sé o per qualcuno.
Chiudiamo anche questo capitolo preparandoci alle parti più pratiche. Ora inizieremo ad accostarci alle attività compiute dal legislatore per garantire questi diritti, considerando anche le ultime agende politiche e rilevando aderenze, scollamenti e devianze, rispetto al dettato costituzionale. Infine, s’è del caso, parleremo anche di rimedi pratici.
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