Qual sarà l’impatto ambientale della nostra routine online?

I ghiacciai si sciolgono, le temperature sono in continuo aumento e molte specie animali sono in via di estinzione. È innegabile ed è impossibile rimanere indifferenti all'evidenza. Potremmo fare di più – molto di più – e mentre acquistiamo prodotti ecologici e ci impegniamo nella raccolta differenziata, c’è un altro tipo di inquinamento.

L’utilizzo dei dispositivi digitali implica un alto livello di consumo e l’incremento del traffico dati derivati dall’Internet of Things rappresenta un ulteriore fattore di aggravamento dell’inquinamento digitale. Navigare su Internet non è carbon-free ed è una realtà tangibile, anche se ai nostri occhi è difficile da visualizzare.

Prendiamo in esame uno smartphone. È molto di più di un semplice telefono e ci consente di svolgere operazioni che nella nostra vita - lavorativa e non - sono parte della routine. Inviare e ricevere e-mail è una di queste. Secondo il rapporto CISCO 2019 (Cisco Visual Networking Index) l’ammontare dei dati prodotti da applicazioni mobile aumenta di 30 ExaByte (30 trilioni di Byte) ogni anno. Ciò significa, per esempio, che il traffico video previsto nel 2020 potrebbe essere visualizzato in circa 5 milioni di anni.

L’inquinamento digitale non si limita all'energia necessaria per far funzionare i device, ma anche allo smaltimento dei rifiuti elettronici. Per sensibilizzare l’audience mondiale in merito, Joana Moll ha lavorato ad un progetto molto particolare.
  
Il progetto CO2GLE

Nel 2015 la ricercatrice Joana Moll ha progettato delle visualizzazioni interattive per dimostrare l’impatto di Internet sull'ambiente e ciò che comporta l’inquinamento digitale a livello mondiale. Questa iniziativa, chiamata CO2GLE, utilizza i dati sul traffico Internet e parte dal presupposto che una ricerca su Google produce circa 4700 grammi di anidride carbonica al secondo. Dunque, ogni minuto la somma delle ricerche produce circa 500 chili di CO2.

Per questo motivo, Google usufruisce dell’Artificial Intelligence per ridurre i livelli di consumo del 40% e nel suo data center in Finlandia utilizza l’acqua del mare del Golfo per raffreddare i server. Un altro caso singolare è il data center della banca norvegese DNB che si trova in un bunker sotterraneo a Stavanger e si raffredda grazie al congelamento dell’acqua proveniente da un fiordo.

I paesi e le istituzioni dovrebbero studiare delle normative ad hoc per incentivare le imprese a produrre consumi minori e ricercare tecnologie più efficienti. Questa riorganizzazione potrebbe anche coincidere con la modernizzazione degli impianti industriali in ottica Industria 4.0.

Chi lo sa.