"Il calcio per me è stato soprattutto una grande, enorme responsabilità. Dal momento in cui sono diventato professionista, ogni volta che entravo in campo o all’allenamento sapevo che c’era gente che pagava per andare a vedere uno spettacolo del quale io ero uno degli attori. Quindi da quel punto di vista è sempre stato un lavoro, lavoro duro.
Non sono mai stato come alcuni giocatori che riescono a godere in un campo di calcio. Io no, non ho mai goduto dentro un campo di calcio. Molte volte l’ho fatto dopo la partita, dopo il novantesimo, dopo una bella vittoria, dopo uno scudetto. In quei momenti sì, sono stato bene. Però durante il gioco mai, perché sentivo di non poter fare un passaggio inutile o svogliato.
Dovevo inventare, fare il meglio, perché mi stava guardando gente che aveva pagato, si era sacrificata per essere felice. Non ho mai pensato che il calcio fosse una storia solo tra me e il pallone. Per me c’è stato sempre il pubblico. Era mio dovere dare il massimo, cercare di sconfiggere l’avversario, non fare mai il minimo sindacale. Le mie caviglie hanno risentito anche di questa concezione del calcio. E della vita.
Il Grupo Alegría è stata la prima squadra di calcio di cui abbia fatto parte. Eravamo nel quartiere, a Reconquista, e c’era questo gruppo di amici. Ci hanno dato la possibilità di giocare a pallone, abbiamo vinto e probabilmente quella euforia mi ha fatto guardare il calcio in un’altra maniera. Il nome della nostra squadretta assomigliava al nostro stato d’animo. Giocavamo in un campo lungo e stretto che sembrava uno scherzo, lo chiamavamo “il lombrico”. Eravamo poveri, piccoli ma pieni di speranze. E’ stata la mia prima squadra, non potrei dimenticarla. Ora sono tornato a vivere dove sono nato e tutti i giorni vedo i compagni di squadra del Grupo Alegría. Una bella storia di vita.
Se mi chiedete quali sono i difensori più forti che ho affrontato ho una lista lunga, perché all’inizio erano tutti duri, tutti difficili. Poi crescendo non riesci mai a capire se li superi perché sei tu che stai migliorando o perché loro stanno calando. Però mi ricordo di Vierchowod, di Baresi, Maldini, Nesta, Chamot, Bergomi, Ferri. Tanti. Poi cominci a fare gol e tutte le squadre stanno attente a quello che puoi fare. E così non hai più un marcatore, ma due o tre. Tanti ti menavano pure. Io, sia chiaro, mi difendevo. L’importante era che alla fine della partita ci si desse la mano. E così è stato, sempre.
L'allenatore che mi ha dato di più è stato Bielsa per le cose che mi ha insegnato, perché ha preso un ragazzino che non voleva giocare a pallone e lo ha trasformato in un professionista vero. E poi Basile con il quale abbiamo vinto le ultime due Coppe America. In Italia Capello, Ranieri. Io, sinceramente, agli allenatori non davo molto retta, nel senso che un attaccante vive più d’istinto.
E’ difficile insegnare a un centravanti. Magari ti alleni, studi tutte le mosse però dopo la palla rimbalza e, invece che a destra, va a sinistra e tutto diventa inedito. Ho avuto un buon rapporto con tutti. Non con Passarella, con il quale non c’era feeling. Non sto dicendo che è una cattiva persona. Ma è l’unico con il quale non mi sono preso, con il quale ho avuto un conflitto. Con tutti gli altri solo bei ricordi.
Firenze mi ha dato qualcosa di bello ogni giorno dei dieci anni che sono stato lì. Il primo ricordo di Firenze che ho è il pensiero che fosse brutta. Arrivavo da Roma sull’autostrada e capitai a Firenze sud. Mi sono detto: ma dove sono capitato? Perché lì, alla fine dell’autostrada, è comparsa un’immagine per me inusuale.
Io venivo dall’Argentina: tutto nuovo, i palazzi di vetro, i grattacieli. Vedere cose di cinquecento anni fa mi ha fatto impressione. Cose che ho imparato presto ad apprezzare, di cui ho percepito la meraviglia e dopo tre o quattro mesi ero già innamorato di Firenze. Avevo capito i fiorentini e le assicuro che non è facile. Loro hanno capito me e io ho sposato la causa viola. Ho pensato che se fossi riuscito a vincere qui sarebbe stata una bella cosa. Non ci sono riuscito, ma nell’intento di arrivarci sono andato lontano. E ora so che Firenze è una città bellissima.
Fino a qualche anno fa avevo tutti i rimpianti possibili. Avevo fatto pochi gol, non avevo vinto tanti trofei, non ero contento della mia carriera, niente. Messi mi ha pure superato nei gol in Nazionale. Non ero contento. Da un anno a questa parte sto cambiando, sto cominciando a vedere cosa ho fatto, cosa ero e cosa sono diventato. Sbagliavo, guardavo sempre avanti e mai da dove ero partito. Da quando ho cambiato il punto di vista sono più tranquillo. Anzi sono contento. Perché dal Grupo Alegría e da “La Lombrica “, dove facevamo le porte usando la rete delle borse di patate, sono arrivato a giocare nei migliori stadi, con i migliori giocatori. Ho vinto e avuto l’amore del pubblico. Sarebbe impossibile non essere contento. Ero sciocco a non esserlo".
GABRIEL BATISTUTA