Non si ricorda più nemmeno quando ha iniziato. Gli sembra di averlo sempre fatto. Di essere sempre andato per la strada, la notte, a cercare negli scrigni che si aprono col pedale ciò che gli altri di giorno buttano via. Non ricorda nemmeno il suo nome.
Non ricorda di avere mai avuto una famiglia, un lavoro, una casa. Neanche le persone, che la sera lo incontrano ogni volta carico di sacchetti, ricordano il momento in cui e comparso per la prima volta al loro cospetto a cercare fra i resti dell’esistenza di ognuno.
Un giorno un signore distinto di un quartiere distinto gli ha urlato da lontano qualcosa. Era il suo nome: Totò Munnizza, si chiamava.
Totò ha una barba bianca, lunga e incolta, striata di nero.
L’alito gli puzza sempre d’alcol, ma ha lo sguardo sveglio del sobrio. Cammina curvo, trascinando i piedi nelle scarpe rotte e le buste coi suoi poveri averi. Ha un impermeabile come quello del tenente Colombo, sempre stretto con una corda alla vita. Nessuno ricorda di averlo mai visto aperto. E sempre lo stesso, d’inverno e d’estate, ma sempre più scuro.
Totò parla poco e lancia lunghe occhiate di sbieco a chi gli si avvicina. Una volta le suore vestite da indiane lo hanno portato nel loro convento per ripulirlo.
La sera però lo hanno ritrovato con le mani tuffate in un bidone nero ricolmo degli scarti della cucina a cercare la cena, così diceva. Chi gli voleva dare qualcosa doveva prima metterlo in una busta e poi chiuderla con un nodo.
Passava le giornate sprofondato in una poltrona in un angolo. Adesso è normale, pensavano le sorelle e gli altri volontari di buon cuore.
Ma una sera, quando sembrava ormai rimesso, caricato di spazzatura che sosteneva di voler gettare fuori nei cassonetti, è fuggito, raccontano, con la sua refurtiva.
Qualcuno dice di averlo visto aggirarsi in un quartiere dormitorio della periferia perché, ha spiegato con gesti e mezze parole, la gente povera mangia di più e lascia più roba.
Totò sostiene che non gli manca nulla. La notte, dopo la “caccia” serale, dorme con una buona bottiglia per tenersi compagnia nei cartoni che gli fanno di volta in volta da letto, da ombrello e da tutto quello che serve. E va in posti sempre diversi della citta. Perché non vuole farsi prendere dai teppisti e dalle persone che dichiarano di volergli bene.
E quando parla di morte, lo fa toccandosi sempre prima nei “posti giusti”. Dice che vuole adagiarsi in una bara d’argento. Una qualunque, una di quelle disseminate per la strada. Allora capisci che pensa ad un cassonetto d’alluminio.
Se gli chiedi il motivo, risponde che il coperchio lo vuole abbassare lui come fa la gente quando butta qualcosa. Perché, in fondo, anche Totò si considera un rifiuto.