In Francia è in atto un tentativo di golpe armato.

Una formazione che si dichiara apartitica, ma che da qualche tempo è essa stessa un partito (è già ufficiale che si candiderà alle prossime europee), sta mettendo a ferro e fuoco Parigi. Hanno bruciato una banca, ferendo undici persone che vivevano negli appartamenti sovrastanti, hanno saccheggiato negozi Bulgari e Hugo, hanno bruciato vari automezzi.

Iniziarono protestando per il popolo e contro Macron, ma subito coi loro atti di violenza mostrarono di fregarsene della gente che dicevano di rappresentare, visto che i proprietari degli appartamenti o dei negozi danneggiati sono persone come loro. Oggi hanno confermato la loro natura violenta, rimettendo a ferro e fuoco la capitale di Francia al fine di rovesciare un governo democraticamente eletto e, probabilmente, rilanciare in vista delle europee la loro immagine che andava sbiadendosi.

 

Il problema non c'è però soltanto in Francia. La storia insegna che certe esplosioni di violenza sono altamente contagiose, se poi consideriamo che fino a qualche tempo fa alcune formazioni politiche fraternizzarono con questi delinquenti, non è esagerato temere azioni simili in paesi vicini.

Intanto la vicenda dei gilet gialli è solo la punta dell'iceberg, oggi stiamo assistendo a un nuovo modo di fare politica, un modo barbaro e scorretto dove i contenuti sono rimpiazzati dalla violenza fisica e verbale.

I gilet gialli usano la violenza per portare avanti la loro battaglia politica. Credo in realtà che sia più corretto dire che usano una battaglia politica per sfogare la loro indole violenta (la violenza non è il mezzo, ma lo scopo), c'è però la tendenza gravissima di molti a legittimare questo comportamento, certificando perciò come giusto l'uso delle maniere forti per combattere una battaglia ideologica.

La violenza però non può essere solo fisica, ma anche verbale. Prendiamo il caso della giovane Greta Thurnberg, paladina degli ambientalisti che ha riacceso l'attenzione del mondo sui sempre più trascurati temi ambientali. Lei combatte una battaglia mettendoci la faccia, esponendo le sue idee, e diventa bersaglio degli insulti di chi non la pensa come lei. Lei usa le idee, i suoi avversari la combattono con le ingiurie. Anche questa è violenza e finisce per legittimare quella fisica. Quelli che dicono peste e corna sulla giovane Greta probabilmente esulterebbero qualora qualche pazzo esaltato dovesse farle del male. Quindi ecco come si arriva facilmente da una forma di violenza all'altra.

 

Ultimo episodio, un po' diverso per la sua natura, ma collegabile ai due precedenti, è l'assalto di natura islamofoba alle moschee in Nuova Zelanda. In questo caso parliamo di terrorismo, eppure basta riportare alla mente un certo linguaggio violento che si usa oggi  nei confronti dei mussulmani per trovare i mandanti morali dell'attentato. Gli esecutori materiali sono dei violenti che hanno trovato un pretesto per fare del male, ma chi parla di invasione islamica o chi fa campagna elettorale associando Islam e terrorismo gli ha fornito tale pretesto. Anche il terrorismo è perciò figlio di questo nuovo modo terribile di fare politica.

 

I fatti che stanno scuotendo l'Europa e il mondo in questi giorni non sono eventi isolati, ma sono tutti figli dello stesso problema: la legittimazione della violenza come strumento politico.

Finché coprire di insulti un avversario politico sarà giudicato alla stregua di un dibattito, saranno sempre più comuni le aggressioni fisiche; finché gettare fango sugli adepti di una religione sarà considerato alla stregua dell'ideologia, gli attentati terroristici saranno all'ordine del giorno. Se non torneremo a censurare questa cultura malata in cui viviamo, dove la violenza trova spesso legittimazione, non dovremo poi sorprenderci degli omicidi, degli stupri o del bullismo, perché essi sono i suoi figli.