Quello che diciamo da (vecchi) genovesi su (storici) genovesi è ormai merce rara. Genova si guarda solo dal mare, come afferma Ivano Fossati? Certo, se si deve scrivere il testo di una canzone ma, se vuoi conoscerla, devi “camminarla”. Perché, a onta di monopattini e piste ciclabili che hanno ristretto, recentemente, anche il mezzo metro di solito concesso ai poveri cittadini che già marciavano all’egiziana, si arriva al punto che imbocchi una “creuza” e devi sgambare in salita.
Ecco, la “creuza de ma”, è stato il titolo di uno degli ultimi successi di Fabrizio De André. Un vicolo che non è mattonato, ma d’acqua, e conduce a giochi mentali da ex cantautore revolution.
Fabrizio, classe 1940, un viso dai tratti tipicamente mix ligure/piemontese, rampollo un po’ perdigiorno di una famiglia di spicco del capoluogo ligure, ebbe per mentore Remo Borzini, autore di “ Il Malamore”, vangelo degli adoratori del meretricio da radical chic, cosicché il giovanotto lasciava la sua ricca dimora per immergersi nella fosca e puteolente (soprattutto allora) atmosfera dei caruggi d’angiporto: come i ricchi bianchi newyorchesi si buttavano a peccare ad Harlem e i protagonisti della “Dolce Vita” andavano a fornicare in un sottoscala allagato.
Siamo sempre figli di D’Annunzio e Faber non faceva eccezione. Giovanissimo, sposò la fidanza più matura, rimasta incinta, Enrica detta “Puny” e nacque Cristiano, spesso bistrattato nelle cronache, non sappiamo se a torto o ragione; sappiamo che, quando ci capitò di vedere de André e prima consorte, tanto tempo fa, davanti alla pellicceria dei vip genovesi, ancor giovani apparivano devastati.
Le esperienze fanciullesche del futuro bardo della Lanterna dovettero essere tumultuose e a tutto fuoco, visto cosa riversò in brani come “Via Del campo”, secondo alcuni dedicata a un famoso trans del centro storico, scomparso una ventina d’anni fa, ma con allusioni a graziose e bambine in cui ognuno può vedere chi vuole.
Insofferente dell’impieguccio trovatogli dal padre, come Paolo Villaggio, De André, una volta deciso di strimpellare e canticchiare, va in bilico tra troubadour- scapigliato francese e troll celtico, prodigo di citazioni colte con riferimenti medievali, un po defilato dalla cerchia dei cosiddetti cantautori di scuola genovese. Faber sta nel suo cantuccio, distante dal burbero reazionario Lauzi, dal depresso Tenco, dal sornione Paoli, dal Bindi dichiaratamente omosex che lamentava le conseguenze del suo prematuro coming out; e nemmeno Faber si lega troppo alle future star concittadine come il citato Fossati e una pletora di altri artisti, di cui Genova non è stata avara.
Molti affermano che il cantante non lasciò Puny per Dori Ghezzi, che sia stata un’invenzione giornalistica, il matrimonio essendo esausto da tempo e con importanti intermezzi di lui accanto ad altre; comunque la storia con la bionda brianzola del Casatchok e di Wess funzionò, nacque la figlia Luisa Vittoria, detta Luvi.
La coppia cantò anche un po’ insieme, poi lei abbandonò gradualmente la scena, forse provata dall’esperienza del rapimento in Sardegna, nel 1979 (i due erano già genitori), o per lasciare spazio all’uomo, incontrastata star, che addrizzò il repertorio, abbandonando bettole e battone, dedicandosi alla riscoperta del dialetto d’origine e mediante collaborazioni con colleghi d’eccellenza, da Roberto Murolo alla PFM.
Fabrizio si poneva come uomo dolce e alla mano, anche per questo è sempre amato. Alla morte, nel 1999, furono fastosi i funerali in chiesa ( sempre Villaggio, in una delle sue demenziali interviste, se ne dichiarò invidioso), mentre tutti si aspettavano una asciutta celebrazione civile.
Nei primi anni duemila Valentina Cortese, al Piccolo 2 di Milano, accettò di collaborare a una pièce musica/recitazione, alla presenza di Dori Ghezzi: Faber era già leggenda.