Cosa ci si deve meritare? Un buon voto a scuola? Un lavoro proporzionato alle proprie qualità? Una posizione sociale proporzionata ai soldi? O semplicemente stima?

Cos’è la stima.
La stima è l’apprezzamento e valorizzazione delle qualità di un individuo, che si esplica anche fornendo ad esso ogni mezzo necessario ad accrescere e consolidare tali qualità, affinché possa contribuire al meglio al bene della razza umana, secondo i propri talenti e possibilità.

Tutti meritano stima.

La scuola è senz’altro il luogo principe per ottenere stima. Essa è l’organo pedagogico preparato e strutturato per determinare le attitudini dei propri studenti. Sottolineiamo attitudini, e non valore! In docimologia, che è la branca specifica della pedagogia nello studio dei sistemi di valutazione, non esiste il concetto di “valore” inteso come l’individuare chi “merita di più o chi merita di meno”, ma si cercano/creano criteri di “valutazione” per stimare – appunto – le attitudini degli studenti. Un punto sul quale la nostra scuola presenta svariati corto circuiti.

Nella cultura di base che interessa l’intero arco della scuola dell’obbligo, e che esprimerebbe il suo massimo potenziale solo a conclusione di un percorso di studi classico (come i licei classici), il voto numerico non ha alcun senso pratico. Non esiste nessun criterio docimologico talmente valido e infallibile da poter certificare senza ombra di dubbio che uno studente da sufficienza abbia compreso/interiorizzato meno di un suo compagno da 100 e lode. Gli stimoli successivi, l’esperienza della vita, la maturazione ulteriore (processi psicologici diversi in ciascuno), e l’inizio dell’accrescimento di quelle attitudini adeguatamente coltivate, faranno quasi indubbiamente lievitare quella sufficienza al pari dei compagni più “volenterosi”.
Parliamo di cultura di base, non di un percorso altamente specialistico!

Possiamo riassumere il tutto in una banale quanto ragionevole considerazione: ciò che si vale a 18 anni non è pari a ciò che si vale dopo 10, 20 o ‘anta anni. Ed è l’intelletto, che non è scientificamente valutabile e non ha criteri docimologici che tengano (il QI è un dato sperimentale e settoriale), a determinare tale sviluppo attraverso l’elaborazione e la critica delle nozioni ricevute durante l’intero arco della propria esistenza. Per cui nella scuola dell’obbligo il voto di maturità/diploma non vale assolutamente a nulla (nemmeno quello di laurea, ma non mettiamo troppa carne al fuoco…).

Gli umani sono esseri complessi. Comprendiamo così poco dei meccanismi mentali e del funzionamento generale dei processi cognitivi ed emozionali, che arrogarsi la presunzione di poter affibbiare un voto certo alla conoscenza, e alla discendente capacità di elaborazione intellettiva, peraltro bollandola come stabile nel tempo, è tipico di un essere profondamente ignorante che non comprende i propri limiti. Un atteggiamento superbo!

L’effetto di tale superbia è la rovina, spesso irrecuperabile, dell’individuo bollato di essere poco meritevole (destrutturandolo) o molto meritevole (illudendolo). Egli avrà immediate difficoltà, le sue attitudini scemeranno o saranno fuorviate e pompate fino a farle implodere. La società lo accoglierà a braccia aperte come prezioso numero da consacrare al consumo. E dunque inizierà quel processo di atrofia neuronale che renderà l’individuo uno tra le tante “brutte persone” del popolo comune. Quelle che solitamente anch’io descrivo in altre riflessioni sull’egoismo, l’apatia, il cinismo, l’ignoranza funzionale, la dissonanza cognitiva, la dispatia, e potremmo continuare a piacere.

Se tutto ciò è vero, non vi fa perlomeno ed eufemisticamente sorridere la previsione di elargire un “bonus cultura” addizionale a chi ottiene la maturità con almeno 100?

Se merito può esserci, è SOLO nell’impegno. L’impegno fotografa l’atteggiamento serio e responsabile dei doveri (come quello di studio), che tende senz’altro a ottenere una prestazione dignitosa nel momento contingente, e di entità quasi sempre diversa da momenti successivi. Non è l’inutile voto numerico che non dipende solo dall’impegno.

Sicché, si determinano costantemente situazioni in cui uno studente sgobba da matti e non riesce a performare come un altro che dedica allo studio poche ore alla settimana. E’ più intelligente quest’ultimo, e quindi lo premiamo? Sarebbe un doppio, e gravissimo, errore: 1) perché è illogico ritenere che un minor impegno di studio e una maggior performance possano consacrare l’intelletto superiore; 2) perché è illogico premiare l’intelletto superiore che, se davvero tale, non avrebbe bisogno di vantaggi poiché in grado di procurarseli da sé; e al contempo punire l’intelletto inferiore togliendogli anche possibilità per provare a colmare le eventuali lacune. Ergo, il bonus dovrebbe essere destinato (primariamente) a chi ha performato peggio nonostante l’impegno profuso.

Tutte considerazioni logiche ed elementari, che come vedete non hanno nemmeno bisogno di dotte citazioni per sviluppare le opportune riflessioni. E da quelle eventualmente approfondire per trovare ogni vostra conferma.

Nella nostra società abbiamo invertito i valori e le necessità, consacrando al “merito” tutto ciò che performa meglio. Un po’ come le cose: telefonini, auto, case, rifiniture, fisico palestrato, tutto ciò che è stereotipato come bello e utile merita e va premiato. Anche le persone rientrano ormai in queste cose, in quanto non più persone ma, appunto: cose! Abbiamo così trovato un nuovo significato di “merito” completamente fuorviante e surreale, col quale si provano a giustificare anche le disuguaglianze sociali, che invece dipendono – esclusivamente – dall’incapacità della società stessa nel determinare le attitudini dei suoi cittadini, colmare o tollerare le lacune di base, formandoli adeguatamente e rendendoli realmente utili.

Ma dobbiamo pur chiederci: se prendessimo per buono questo fenomeno (da baraccone) culturale, lo abbiamo compreso, almeno, perché abbiamo così tante persone immeritevoli? E subito dopo, come vogliamo rimediare e che ne facciamo di tutta questa gente immeritevole?

Nel frattempo potremmo essere umili.

Lo potrebbe essere, ad esempio, l’attuale governo, totalizzando il significato autenticato del termine “umile” che un suo ministro ha spesso pronunciato in questi giorni. Proprio lui, il ministro del merito, che per umiltà ha già precisato di non voler intendere il suo lapsus sull’umiliazione (e ci mancherebbe!). Allora diciamogli anche che per umiltà non deve intendere nemmeno moderazione o limitazione di qualità e prerogative, e neppure limitare l’eventuale arroganza, anche se potrebbe non essere carino. Basti, come detto, il significato autentico di umiltà: la gentilezza, se possibile, nell’usare una qualità; subito dopo la consapevolezza dei propri limiti, e infine l’assenza di superbia che ne è conseguenza. Questa è l’umiltà che conta.

Con una tale (umile) coscienza nulla dovrebbe ostare al ripudio di quella superbia che vuol riconoscere nella valutazione scolastica di base, quel voto numerico che determina il valore autentico dello studente. Perché non è così, e perché non esiste nulla di sensato, pedagogico e scientifico, su cui si possa basare un’idea di merito di questo genere.

A capirlo, ogni tanto, arriva gente. Plauso al liceo Morgagni di Roma, che da sette anni ha abolito i voti di valutazione con ottimi risultati, e osservato con interesse dalla facoltà di pedagogia della Sapienza. Permane ancora l’unico voto finale in pagella. Ma perlomeno qualcuno sulla buona strada si trova sempre.

Questo è il merito: stima a tutto tondo.
Questa è l’umiltà: coscienza dei propri limiti.