Che fine faranno gli artisti? Lo sfogo di Mario Incudine
Stiamo reinventando un modo 2.0 di fare musica, teatro e intrattenimento ma tutto deve tornare nei luoghi deputati, deve ritornare a quella dicotomia attori-spettatori.
Si è appena intercettato un timido intervento del ministro Franceschini. Io attendo con ansia qualcosa in più. Un suo post, un suo tweet, una sua apparizione mariana, un suo messaggio in bottiglia, un suo piccione viaggiatore.... con delle misure, delle ipotesi, delle idee, qualcosa che possa toglierci da questo stato limbare.
Non penso che, al di là di qualche facile narcisismo, gli artisti in questo momento si esibiscano per onanismo intellettuale. Lo fanno perché credono fermamente nel proprio lavoro, nella propria missione. La solitudine può uccidere, e la vocazione di ogni arte è quella di avvicinare gli uni agli altri, creare condivisone, scacciare le paure, allontanare la depressione. Sentire di non essere soli. Vivere attraverso la pietàs della finzione un’altra realtà, rivivere nella bolla magica del teatro la vita di personaggi giganti e storie epiche. Sentire nel fraseggio di una melodia un frammento di infinito. Seppure dietro uno schermo stiamo reinventando un modo 2.0 di fare musica, teatro, intrattenimento.
Lo stiamo facendo perché è l’unica cosa che sappiamo fare. Perché crediamo in questo mestiere più di ogni altra cosa al mondo. Ma non potremo farlo per sempre. Il teatro, la musica, l’arte deve tornare nei luoghi deputati, deve ritornare a quella dicotomia attori/spettatori, deve ritrovare la sua vocazione di aggregazione sociale. Noi dobbiamo tornare al nostro lavoro. In quel posto di lavoro che è il teatro, la piazza, la pietra, la sala da concerto.
Adesso continuiamo ad aprire il sipario nelle nostre stanze per senso di dovere e di riconoscenza verso gli spettatori. Ed è proprio facendo leva su questo nostro senso del dovere, su questo eterno rispetto verso il nostro pubblico che si da spesso tutto per scontato. Perché noi andiamo in scena, comunque. Sempre e comunque. E non perché ci piace, ma perché ci hanno insegnato che lo spettacolo continua, sempre. Anche se c’è un solo spettatore. Ma non si può pensare che la passione basti da sola.
Siamo lavoratori, che usano la passione per rendere al meglio. Il piacere può passare se non è consustanziato dal lavoro, non solo degli artisti, ma anche e soprattutto, delle macchine organizzative, dei management, delle agenzie, degli uffici stampa, dei tecnici, dei service e di tutta quella filiera produttiva che rende possibile portare a termine un evento artistico di qualsiasi entità. In questi giorni ognuno di noi inonda le proprie bacheche di arte, di letture, di pezzi di teatro, di canzoni. I teatri organizzano stagioni in streaming perché il teatro non sopravviva, ma possa continua a vivere. Ma poi? Cosa faremo? Come ci torniamo sul nostro posto di lavoro? Quando?
Però se da domani, presi dallo sconforto e abbandonati al nostro destino, ognuno di noi dovesse oscurare le proprie bacheche, o non prestare più la propria voce per letture e dirette di ogni tipo, i riflettori si spegnerebbero definitivamente per tutti. E si potrebbe morire, di solitudine. E di fame.
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