Dopo appena 130 giorni di mandato come funzionario governativo speciale, Elon Musk ha lasciato l'amministrazione Trump. Il miliardario e CEO di Tesla, entrato con fanfare nella squadra del presidente per guidare un'ambiziosa – e controversa – operazione di ridimensionamento della macchina federale, se ne va senza cerimonie e con poche spiegazioni pubbliche. La sua uscita è stata confermata mercoledì sera da un funzionario della Casa Bianca.

Musk stesso, poche ore prima, aveva ringraziato Trump pubblicamente tramite la sua piattaforma X, confermando la fine del suo mandato al Dipartimento per l'Efficienza Governativa (DOGE). Ma dietro le dichiarazioni di cortesia, le tensioni erano palpabili da settimane. La goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso è arrivata solo un giorno prima, quando Musk ha criticato duramente in diretta TV la nuova proposta di legge fiscale dell'amministrazione, definendola troppo costosa e in contrasto con il lavoro svolto dal suo stesso team.

Secondo fonti vicine alla Casa Bianca, Musk non ha nemmeno parlato con Trump prima di annunciare le sue dimissioni. Una decisione presa "a livello di staff dirigenziale", il che lascia intendere che più che un'uscita concordata si sia trattato di un allontanamento forzato. La sua critica alla legge fiscale ha irritato profondamente figure di spicco come il vice capo dello staff Stephen Miller e ha costretto l'amministrazione a intervenire per ricucire i rapporti con i senatori repubblicani.

Musk, che inizialmente era considerato una risorsa preziosa – energico, iconoclasta e immune alle regole non scritte di Washington – ha gradualmente perso il suo carisma iniziale. Durante la Conservative Political Action Conference di febbraio, era stato accolto come una rockstar, brandendo una motosega rossa sul palco al grido di "Questa è la motosega per la burocrazia". Ma col tempo, il suo stile aggressivo e la tendenza a scavalcare le gerarchie hanno suscitato diffidenza e resistenze, persino tra gli alleati.

L'obiettivo dichiarato di Musk era drastico: tagliare 2.000 miliardi di dollari di spesa federale. Secondo il DOGE, i risparmi effettivi ammontano a 175 miliardi – cifra non verificata in modo indipendente. L'iniziativa ha ridotto di circa il 12% la forza lavoro civile federale, pari a circa 260.000 posti, soprattutto tramite incentivi al pensionamento e minacce di licenziamento.

Ma i tagli non sono stati indolori. In diverse occasioni, i tribunali hanno bloccato lo smantellamento delle agenzie, e in alcuni settori si sono registrati aumenti dei costi, rallentamenti negli approvvigionamenti e una fuga di cervelli tra gli esperti scientifici e tecnologici. 

Musk non ha mai fatto mistero del suo disprezzo per il telelavoro nella pubblica amministrazione, auspicando che il ritorno forzato in ufficio potesse provocare una "valanga di dimissioni". Non è avvenuto.

Tesi e tutt'altro che cordiali i rapporti con l'esecutivo. Tre membri del gabinetto – Marco Rubio, Sean Duffy e Scott Bessent – si sono apertamente scontrati con lui. E l'insulto pubblico al consigliere Peter Navarro, definito "più stupido di un sacco di mattoni", non ha contribuito a migliorare il clima.

Anche al di fuori di Washington, Musk ha pagato un prezzo. Alcuni investitori hanno protestato contro il suo crescente interesse nella politica, chiedendogli di tornare a concentrarsi su Tesla, i cui numeri, relativi al fatturato, sono in netto calo. 

Nonostante l'uscita del suo volto più noto, l'amministrazione Trump ha confermato che DOGE continuerà a operare. Tuttavia, diversi membri del gabinetto stanno già lavorando per riprendere il controllo su budget e personale, smorzando l'impatto degli approcci radicali di Musk.

"Il DOGE diventerà uno stile di vita per il governo", ha detto Musk in una delle sue ultime dichiarazioni ufficiali. Ma per molti a Washington, la sua esperienza verrà ricordata più come un esperimento fallito che come un'eredità strutturale. Un blitz tecnocratico finito male, nel cuore della palude che voleva prosciugare.