CASERTA – (AISNEWS – Ernesto Genoni) - A partire dal prossimo 1 marzo del 2023 si celebrerà, non solo in Italia, il 250° di Lodewijk van Vittel, l’architetto che legò indissolubilmente il suo nome ai Borbone. In ogni provincia italiana, e soprattutto lì dove l’Architetto ha lasciato maggior traccia di sé e della sua arte ingegneristica, opere realizzate con grande maestria e genio, già fervono i preparativi per le celebrazioni dell’illustre personaggio. Le sue spoglie, questo per sua volontà, furono seppellite a Caserta. E proprio a Caserta - dove Vanvitelli ha vissuto per tanti anni - con una operazione sinergica tra “Reggia di Caserta” - con il decreto del Direttore Generale, Tiziana Maffei e l’Amministrazione Comunale guidata dal sindaco Carlo Marino e per la Cultura l' Assessore Enzo Battarra, verranno concentrate numerose manifestazioni  in un contenitore unico dal tema “Luigi Vanvitelli, il Maestro e la sua eredità 1773-2023”.

Lodewijk van Vittel, nome italianizzato in Luigi Vanvitelli, fu un architetto e pittore italiano. Nacque il 12 maggio 1700 a Napoli, da madre napoletana, Anna Lorenzani e da padre olandese, il pittore Caspar van Wittel, che si trasferì dall’Olanda direttamente a Napoli per lavorare nel cantiere del palazzo Reale di Napoli. Luigi Vanvitelli morì a Caserta il 1 marzo del 1773. Fu sepolto nella chiesa di San Francesco di Paola che faceva parte del convento dei Minimi, edificio costruito a fianco della Reggia. Ritenuta a ragione luogo della sua sepoltura così come riporta anche un documento dell’epoca.

“Passò da questa a miglior vita il sig. Don Luigi Vanvitelli, Ingegnere del Re munito con tutti i Sacramenti, nella Terra di Caserta, dove abitava, e per sua Divozione volle, e fu seppellito nella nostra Chiesa Parrocchiale di S. Francesco di Paola della Città di Caserta”.

La chiesa e il convento furono fondati nel 1606, ma 'importanza del convento accrebbe con la sepoltura dell'insigne architetto nel 1773, ma solo nel 1879, grazie all'iniziativa del Presidente del Collegio degli Ingegneri, fu apposta una lapide che ricordasse l'evento.

 Luigi Vanvitelli nella sua produzione professionale eseguì un consistente numero di opere, opere di forte impatto caratterizzanti i profili urbanistici e architettonici di varie città italiane. A Caserta (1751) lavoro alla progettazione della scenografica Reggia, alla quale il suo nome è tuttora legato inseparabilmente e all'imponente acquedotto Carolino.

Ad Ancona il grande Lazzaretto, su un'isola artificiale pentagonale da lui realizzata e la chiesa del Gesù. A Napoli il Foro Carolino, il palazzo Doria d'Angri, La casina Vanvitelliana a Bacoli, il palazzo Calabritto e la scala nella villa de Campora Gaudiosi a Cercola, la Basilica della Santissima Annunziata e l'Oratorio della Scala Santa e a Roma l’arduo ed esemplare restauro della Basilica di Santa Maria degli Angeli che altri non vollero accettare.

Luigi Vanvitelli junior, il nipote dell'artista, narra in una biografia dell'architetto ci offre un ritratto caratteriale del Vanvitelli assai vivido.  “Estremamente laborioso, e disegnatore indefesso, egli riuniva qualità sovente discordi, prontezza d'ingegno e sofferenza di studio, vivacità di spirito e ostinazione di fatica. In mezzo a tante occupazioni e gloria sì rara, era sempre umano, moderato, piacevole, discreto cogli operai, pietoso con i miseri, cortese con tutti. [...] Raro ed imitabile esempio di lodevolissima onestà, [Vanvitelli era] di dolci costumi, nettissimo d'invidia, affabile e sincero per natura era da tutti desiderato, ed amici aveva moltissimi.”

Dalle alcune testimonianze epistolari, inoltre, sappiamo che Vanvitelli non era un assiduo frequentatore della vita mondana napoletana; e nonostante questa sua riservatezza però, quando il lavoro glielo consentiva, amava partecipare a rappresentazioni teatrali, e specialmente al San Carlo. E per distrarsi un po’, soleva giocare a lotto, inoltrando al fratello Urbano soldi e istruzioni ben precise sui numeri da scegliere.

 L'eclettismo delle sue realizzazioni e la versatilità del suo estro creativo rendono Vanvitelli un architetto difficilmente inseribile entro i ristretti orizzonti di una definita corrente artistica: fatto tipico del periodo di transizione fra barocco e neoclassicismo. 

Di seguito due tesi contrapposte. Lo storico dell'arte Corrado Maltese (1950), ad esempio, è categorico nel definire l'opera vanvitelliana marcatamente barocca.  Alla tesi del Maltese si oppone invece Renato Bonelli (1955), che al contrario riconduce Vanvitelli verso esiti neoclassici. Eccole di seguito. 

«Il carattere neoclassico che si è voluto rivendicarle – così Corrado Maltese - è nettamente smentito dagli effetti pittorici e scenografici degli archi, delle volte, delle scalinate, delle colonne, paraste, mensole, cornici e nicchie innumerevoli, e infine dagli schizzi preparatori, tutti volti a creare effetti pittorici di luci e ombre, movimento e profondità di masse e piani. (...) Quella composta simmetria sembrerebbe, certo, giustificare la patente neoclassica assegnata al Vanvitelli. Eppure, proprio per un simile ritorno a uno schema classicista (...) la pianta chiusa di Caserta non tocca, e tanto meno preannuncia, in nessun modo il mondo neoclassico: si asserraglia entro le sue pesanti muraglie defilandosi dalla scenografia dei giochi d'acqua che rimbalzano giù dai colli, ne nega il nesso più profondo con la vita interna della reggia, trasformandola in fastosa appendice».

Alla tesi di Maltese si oppone Renato Bonelli.

«Negli anni intorno alla metà del Settecento, - asseriva invece Renato Bonelli - quando Vanvitelli progetta la Reggia, la parentesi storica del Barocco era ormai superata, e l'architettura francese degli hotels (anch'essa chiamata impropriamente Rococò) era giunta a mostrare la necessità di una radicale diversificazione degli interni, ornati da una frivola e sofisticata decorazione, dall'architettura degli esterni, contenuta in forme semplici e sobrie, con partiture sintetiche e superfici piane, ma pur sempre composte da elementi classici. Dopo I'"incidente" barocco, e dopo il trapasso del grand-gôut, la strada scelta era ancora quella di un nuovo e diverso ampliamento del linguaggio classico».