Sul futuro della Chiesa e sulla possibile rinascita dalla crisi  la risorsa dei preti sposati è una prospettiva che potrebbe innescare un nuovo rilancio delle comunità cattoliche.

Pochi giorni fa, Massimo Borghesi ha pubblicato su Ilsussidiario.net un interessante articolo in cui riprende una conversazione avuta con Riccardo Cristiano e pubblicata da quest’ultimo su Formiche.net il giorno di Natale. Il nodo della questione era il futuro della Chiesa e ciò su cui essa deve riflettere per rendere (ancora una volta) attuale l’annuncio cristiano, per rivolgersi all’umanità di oggi con pensieri e linguaggi comprensibili. Abbiamo provato a incrociare i nostri pensieri con quello di Borghesi, così da animare un dialogo (e quindi una salutare dialettica) che possa essere costruttivo e il più ampio possibile.

Borghesi si concentra su tre tensioni polari. La prima riguarda “la dialettica tra formazione intellettuale del clero e pratica pastorale”. L’articolo sottolinea come la ratio studiorum attuale dedicata ai futuri presbiteri sia talvolta carente e anche poco organica, con i suoi “orientamenti tendenzialmente idealistici” e “trascendentali” di fatto non adeguati a pensare “un mondo complesso, profondamente secolarizzato”. Il filosofo propone, quindi, una rivisitazione di tale ratio che articoli meglio il rapporto tra teologia e filosofia e rivaluti la “prospettiva realista”: “l’antropologia guadagnerebbe molto dall’assunzione di tale modello”.

Sulla necessità di tale rivisitazione siamo pienamente d’accordo, ma proprio il riferimento all’antropologia impone un ampliamento della riflessione.  In un mondo che non ha più i connotati della modernità, bensì quelli della postmodernità, non si possono più ignorare le componenti emozionali e corporee, magari immaginandole estranee, o peggio, interferenti, con la componente intellettuale. Sempre più spesso, oggi, emozioni e impulsi naturali vanno a dominare i comportamenti, anche ecclesiali, delle persone. Una formazione seria deve lavorare per ricostruire un pensiero, sempre perfettibile e mai esaustivo, che sia però l’esito di una riunificazione di queste dimensioni antropologiche, altrimenti resteremmo sempre nella frattura tra un intellettualismo asfittico e astratto e una operatività prigioniera dell’estemporaneità delle emozioni.

In questo senso, la ratio studiorum dovrebbe aprirsi in modo definitivo alle scienze umane e, se riconosciamo che la crisi antropologica è anche ambientale, alle scienze naturali – come la costituzione apostolica Veritatis Gaudium (VG), seppur timidamente, indica (cfr. Proemio, §2, §5; Parte II, artt.70-71; Parte IV, art.85; Norme applicative, artt.55, 66, 70). Ciò potrebbe aiutare in primo luogo l’Occidente ad invertire quella svalutazione – a cui si assiste quasi impotenti da anni – dello studium, del contenuto, della riflessione critica, del tempo di sosta, a vantaggio di una accelerazione globale che vede la formazione e lo studio approfondito come poco ‘utile’ in un’ottica soprattutto economicistica e tecnicistica dell’istruzione. L’obiettivo non sarebbe certo quello di approdare ad una sintesi (VG, §3), oggi tutta da ricostruire, ma almeno (come auspica anche Borghesi) sviluppare un approccio al reale più transdisciplinare e meno eclettico o frammentato (VG, §4).

D’altra parte, questo allargamento della ratio studiorum dovrebbe riguardare anche i soggetti coinvolti: dal momento che il numero dei preti è destinato a calare, si pensa davvero di incidere efficacemente sulla cultura ecclesiale attraverso uno sparuto gruppo di persone che non avrà più, anche solo per ragioni numeriche, quel ruolo che nel ragionamento di Borghesi sembra poter ancora avere? E la provenienza di questi futuri presbiteri da contesti di fatto privi di secolarismo non rischia, nell’ottica proposta da Borghesi, di alimentare cortocircuiti e incomprensioni profonde riguardo la secolarizzazione come segno dei tempi? Non restiamo, infatti, ancora dentro al ‘modello clericale occidentale’ che Francesco a più riprese chiede di cambiare? È dunque l’intero popolo di Dio, almeno a partire dai laici più impegnati, che dovrebbe essere soggetto e oggetto di una formazione ampia, più approfondita, più interculturale, che abbia essa rudimenti di teologia, filosofia e di esegesi biblica, in dialogo, a seconda dei carismi di ognuno, con le scienze umane e con le scienze naturali – sempre a partire dai vissuti effettivi delle persone di oggi e senza escludere i temi che le esperienze emozionali delle persone fanno emergere e faticano a risolvere.

La seconda questione messa a fuoco da Borghesi riguarda la tensione polare “tra parrocchia e movimenti”. Anche in questo caso il filosofo pone una questione importante, che però andrebbe ampliata: il nocciolo riguarda la necessaria transizione da una fede solo “territoriale” ad una fede anche di “ambiti”, o meglio d’ambiente – soprattutto nelle grandi città, aggiungiamo noi, dove le statistiche affermano che entro il 2030 vivrà il 70% della popolazione mondiale. Qui Borghesi, però, appare più preoccupato di dimostrare che Papa Francesco crede ancora “alla fecondità e alla utilità dei movimenti” nell’offrire una “testimonianza cristiana adulta e creativa” negli ambiti extra-parrocchiali, pur riconoscendo che il vescovo di Roma ha “una predilezione particolare per il modello parrocchiale” mentre spesso dei movimenti ha evidenziato soprattutto “i limiti”.

In realtà, non possiamo ignorare un dato di fatto: non solo le parrocchie, ma anche i movimenti sono in profonda crisi – e quest’ultimi molto più di quanto Borghesi voglia riconoscere (dato che ormai sembrano riprodursi solo al loro interno), segno che non esiste più in entrambi i casi una realtà davvero attrattiva e significativa per la sete di spiritualità che oggi permane nel mondo di fuori, almeno per chi è nato dagli anni ’90 del secolo scorso. Inoltre, dopo decenni di pastorale d’ambiente affidata ai movimenti carismatici (soprattutto in occidente), è difficile che la parrocchia per come l’ha vista sviluppare in sudamerica Bergoglio (popolare e provvista di leadership laicali) possa avere la forza di assumere il ruolo che vede per essa Papa Francesco. Lo dimostra il processo sinodale: scarso se non praticamente nullo l’apporto delle parrocchie nell’ascolto della realtà cosiddetta ad extra, in questo per niente suffragate dai movimenti stessi che, in quanto tali, hanno dato sinora un contributo molto limitato se non inesistente.

Non è un caso che dal processo sinodale ci si aspetti anche l’ispirazione grazie a cui la parrocchia, i movimenti o le forme nuove emergenti (di carismi e ministeri) si reinventino nel loro dare corpo all’essere cristiani, affinché la Chiesa (quella concreta, della porta accanto) torni ad essere attraente per le persone. E allora, forse, dobbiamo chiederci ancora una volta: come mai non siamo attraenti? Non è che il problema risiede in una crisi di fede, o meglio – alla luce di quanto detto prima – di inculturazione della fede, proprio di chi ancora appartiene alle realtà ecclesiali, siano esse parrocchiali o legate ai movimenti?

La terza tensione polare colta da Borghesi è quella “tra Occidente e non-Occidente”, con l’invito a non abbandonare la sfida posta dall’Occidente “secolarizzato” (e dai suoi giovani “nuovi pagani”) a favore delle “periferie del mondo (…) più ricettive verso il messaggio cristiano”.

Ora, però, non si può più ignorare che l’Occidente (non ridotto all’anglosfera) è oggi molto vario nei fenomeni, nelle strutture, nelle società, soprattutto dal punto di vista religioso, così come è ancora più vario il non-Occidente: la Cina non è l’India, l’America Latina non è l’Africa. Fuori dal recinto, direbbe Alessandro Castegnaro, tutto è diverso da come appare nel recinto: gli increduli sono altrimenti credenti, i senza religione sono persone spirituali, i credenti di oggi potrebbero essere gli agnostici o gli atei di domani. Per cui, immaginare di rivitalizzare la tradizione cristiana occidentale con le prime due tensioni polari (come auspica Borghesi), ma senza averle ampliate (nel senso da noi proposto), rischia di rivelarsi sin dall’inizio un sentiero interrotto.

Ma anche se questa tensione polare venisse rivista e condotta a quella tra periferie e centro del mondo – che Francesco, da tempo, ha messo sul tavolo – dovremmo ricordare che oggi non possiamo ignorare neanche il fatto che lo spazio geografico è sempre meno rilevante, mentre cresce la presenza, trasversale a tutte le latitudini, di quello virtuale: basti solo pensare allo “spettacolo” di fronte alla salma di Benedetto XVI che molti commentatori stanno evidenziando. Come ripresentare, dunque, la Tradizione cristiana in uno spazio-tempo che si muove sempre più (in senso post-moderno) verso il virtuale e l’istantaneo, ma sempre meno verso le radici e le prospettive culturali? Non è che la pienezza del poliedro – in questo caso delle culture (con i loro tempi) – è rimasta una bella immagine non pensata sino in fondo?

Alla fine, forse, si può riconoscere che questa riflessione chiama in causa il peso e la portata del passaggio epocale che stiamo vivendo e che ancora sembra non pienamente compreso nel mondo ecclesiale. Stanno cambiando le fondamenta della nostra epoca e non solo la teologia e la filosofia, ma anche le scienze umane e naturali, per come le abbiamo conosciute finora, non sembrano in grado di darci direzioni chiare. Possiamo riproporre il vangelo in una condizione di trasformazione culturale senza averla a lungo ascoltata? In questi passaggi storici, ha più bisogno la cultura di ascoltare il vangelo o il vangelo di ascoltare la cultura?

(tratto da vinonuovo.it)

disponibile in sacerdotisposati.altervista.org/quale-cultura-quale-comunita-quale-tradizione-per-loggi-della-chiesa-sul-futuro-la-risorsa-dei-preti-sposati/