Fino a qualche mese fa Draghi si lamentava della bassa crescita dell'inflazione nei vari paesi dell'eurozona. Evidentemente aveva ragione a preoccuparsi. Infatti, in Italia, la diminuzione del livello generale dei prezzi è tale che si deve addirittura parlare di deflazione.

Lo afferma in un rapporto di questa mattina il Centro Studi della CGIA di Mestre, indicando una diminuzione dello 0,2% dei prezzi al consumo nei primi 6 mesi del 2016. Se non ci sarà un'inversione di tendenza, il dato di fine anno sarà definitivo e l'Italia registrerà per la seconda volta una diminuzione dei prezzi... dopo il 1959.

Ma il vero problema è che nel 1959 il PIL italiano si attestava intorno al 7%, mentre ad oggi, dopo le solite e ricorrenti correzioni che aggiustano al ribasso le previsioni curiosamente sempre molto più ottimistiche, il PIL dell'Italia per il 2016 è previsto sotto l'1%.

Se a prima vista un calo dei prezzi potrebbe sembrare positivo per il consumatore, bisogna ricordare che questo da una parte indica una scarsa capacità di spesa degli utenti, dall'altra il pericolo serio sulla produzione  e commercializzazione di beni e servizi con le aziende in difficoltà a causa del minor fatturato e dei costi di gestione del magazzino. L'effetto a catena è il rischio di una nuova recessione che non potrebbe non avere conseguenze sull'occupazione, con una ricaduta sulle condizioni e la qualità di vita delle famiglie.

Secondo la CGIA, «la deflazione coinvolge, a macchia di leopardo, tutto il Paese e nel primo semestre del 2016 nemmeno le città del Nord e le metropoli si sono salvate dalla spirale deflazionistica: Milano (-0,5%), Torino (-0,4%) e Roma (-0,4%) sono casi emblematici; in testa alla classifica troviamo Vicenza (-0,8%) che condivide questo “primato” con Bari.

Con riferimento al Sud del Paese, dopo Bari (-0,8%) le flessioni dei prezzi più ampie riguardano Potenza (-0,7%) e Sassari, Reggio Calabria e Palermo (-0,5% per tutte e tre). Per il Centro Italia le contrazioni maggiori sono state a Perugia (-0,5%) e a Firenze (-0,4%); si tratta di andamenti ben più negativi della media nazionale che si “ferma” allo -0,2%».

In quali settori sono state registrate le diminuzioni nell'andamento dei prezzi? I prezzi dei PC sono diminuiti  del 12,7%, il gasolio per auto del 12,5%, la benzina del 7,6%. Diminuzioni che hanno una loro giustificazione in base all'aggiornamento tecnologico e all'andamento dei prezzi del petrolio. Però, sono diminuiti altri comparti di spesa che non risentono delle stesse dinamiche, come quello degli alimentari.

«Pomodori (-7,2%), insalata (-2,4%), zucchero (-2,4%) e gelati (-2,0%) sono i prodotti che hanno visto la riduzione dei prezzi maggiore, ma la lista degli alimentari con il segno meno è lunga: pesche/nettarine (-1,8%), cereali per colazione (-1,6%), arance (-1,4%), farina/altri cereali (-1,2%), banane (-1,2%), yogurt (-1,2%); scorrendo la classifica dei prodotti alimentari con il segno meno se ne contano quasi trenta».

Dati confermati ieri dall'Istat con l'andamento del commercio al dettaglio che ha registrato a maggio 2015 un andamento negativo per i prodotti alimentari (-1,8% in valore e -2% in volume) rispetto allo stesso mese di un anno fa.

«Il fatto che tanti prodotti alimentari abbiano subito un forte deprezzamento – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – è indice delle difficoltà in cui versano le famiglie italiane. Nonostante i consumi abbiano registrato una leggera ripresa, rimangono molto lontani dai livelli raggiunti prima della crisi. Dal 2007 ad oggi, infatti, sono diminuiti di circa 6 punti percentuali. Nonostante il rafforzamento del Quantitative Easing da parte della Banca Centrale Europea, la domanda è ancora fiacca e questo influisce sul livello dei prezzi che continuano a scendere, riducendo in misura preoccupante i margini di guadagno delle imprese».

A questo punto, la domanda sorge spontanea: ma tutti non ci dicevano che l'economia italiana e l'Italia come paese erano in ripresa?